Sante con le
tette, e pugnali castratori. Un catalogo di martiri e miti in cui prorompenti
figure femminili si fanno giustizia. A Firenze dopo lo stupro - o fidanzamento
- di cui Artemisia fu vittima. A Napoli, nel pieno della gloria e degli amori.
A Londra, artista quarantenne già emerita. I contemporanei che le fanno corona
nella mostra non sono da meno, la donna castratrice faceva l’erotismo nel primo
Seicento, ma certo con minore forza.
Nome e
simbolo femminista – di alberghi e bar per sole donne in Germania - eletta da
Germaine Greer (“L’eunuco femmina”, 1970) a pittrice della guerra dei sessi,
Artemisia Gentileschi è di più, ma sostanzialmente quello.
“Giuditta che decapita Oloferne”, il
quadro più celebre, ne è lo specchio. Eretto dagli anni 1970 a manifesto del
femminismo, la violenza della donna contro la violenza dell’uomo. Roberto Longhi, che Artemisia aveva scoperto sessant’anni
prima del femminismo, nel 1916, non aveva dubbi: “Chi penserebbe che sopra un lenzuolo studiato di candori e
ombre diacce degne d’un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un
macello così brutale ed efferato…?” Un ritratto lungo, di scoperta, e di
ribadita ironia. Una scena di violenza meditata, aggiungeva: “Qui non v’è nulla
di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha
dipinto tutto questo ed è persino riuscita a riscontrare che il sangue
sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo
centrale!... Infine non vi pare che l’unico
moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le
brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si
tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del
Seicento europeo, dopo Van Dyck”.
Ne fu impressionato pure
Roland Barthes, che non amava le donne. E più dall’erotismo che dalla
cattiveria, annotando nel catalogo della mostra “Word for Word – Artemisia
No. 02”, Parigi, 1979 (catalogo
trilingue, anglo-franco-italiano, testi di Roland Barthes, Eva Menzio,
Léa Lublin, galleria Yvon Lambert, che l’anno prima, 1978, aveva esposto
“Giuditta” con lavori di Cy Twombly, Joseph Kossuth, Daniel Buren e altri
contemporanei) frasi ad effetto: “Ammiro la tua bellezza, e sono sotto di
essa”, come una tribade. Con senso critico, poi, rilevando anche lui la
costruzione a freddo del quadro: “Il primo colpo di
genio è aver messo nel quadro due donne, e non solo una, mentre nella versione
biblica la serva aspetta fuori; due donne associate nello stesso lavoro, le braccia
frapposte, che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere
una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna. Non sembrano
due lavoranti sul punto di sgozzare un porco? Tutto ciò assomiglia a un’operazione
di chirurgia veterinaria. Nel frattempo (secondo colpo di genio), la differenza
sociale delle due compagne è messa in risalto con acume: la padrona tiene a
distanza la carne, ha un'aria disgustata anche se risoluta; la sua occupazione
consueta non è quella di uccidere il bestiame; la serva, al contrario, mantiene
un viso tranquillo, inespressivo; trattenere la bestia è per lei un lavoro come
un altro: mille volte in una giornata essa accudisce a delle mansioni così
triviali”. L’attrazione estetica – l’emozione erotica – riconducendo anche
alla novità di genere: “È qui la forza dei quadri della Gentileschi: nel
capovolgimento brusco dei ruoli. Una nuova ideologia vi si sovrappone, che noi
moderni leggiamo chiaramente: la rivendicazione femminile”.
Artemisia fu anche abile venditrice –
per esempio nella corrispondenza col collezionista don Antonio Ruffo di
Bagnara, principe della Scaletta e della Floresta, nella raccolta pubblicata
dieci anni fa da Eva Menzio. In grado di organizzarsi in sessant’anni tre o
quattro carriere distinte di pittrice, tante le città dove visse.
Artemisia Gentileschi e il suo tempo, Museo di Roma, palazzo
Braschi, piazza Navona
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