venerdì 9 dicembre 2016

Sante macellerie

Sante con le tette, e pugnali castratori. Un catalogo di martiri e miti in cui prorompenti figure femminili si fanno giustizia. A Firenze dopo lo stupro - o fidanzamento - di cui Artemisia fu vittima. A Napoli, nel pieno della gloria e degli amori. A Londra, artista quarantenne già emerita. I contemporanei che le fanno corona nella mostra non sono da meno, la donna castratrice faceva l’erotismo nel primo Seicento, ma certo con minore forza.
Nome e simbolo femminista – di alberghi e bar per sole donne in Germania - eletta da Germaine Greer (“L’eunuco femmina”, 1970) a pittrice della guerra dei sessi, Artemisia Gentileschi è di più, ma sostanzialmente quello.
“Giuditta che decapita Oloferne”, il quadro più celebre, ne è lo specchio. Eretto dagli anni 1970 a manifesto del femminismo, la violenza della donna contro la violenza dell’uomo. Roberto Longhi, che Artemisia aveva scoperto sessant’anni prima del femminismo, nel 1916, non aveva dubbi: “Chi penserebbe che sopra un lenzuolo studiato di candori e ombre diacce degne d’un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un macello così brutale ed efferato…?” Un ritratto lungo, di scoperta, e di ribadita ironia. Una scena di violenza meditata, aggiungeva: “Qui non v’è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riuscita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale!...  Infine non vi pare che l’unico moto di Giuditta sia quello di scostarsi al possibile perché il sangue non le brutti il completo novissimo di seta gialla? Pensiamo ad ogni modo che si tratta di un abito di casa Gentileschi, il più fine guardaroba di sete del Seicento europeo, dopo Van Dyck”. 
Ne fu impressionato pure Roland Barthes, che non amava le donne. E più dall’erotismo che dalla cattiveria, annotando nel catalogo della mostra “Word for Word – Artemisia No. 02”, Parigi, 1979 (catalogo trilingue, anglo-franco-italiano, testi di Roland Barthes, Eva Menzio, Léa Lublin, galleria Yvon Lambert, che l’anno prima, 1978, aveva esposto “Giuditta” con lavori di Cy Twombly, Joseph Kossuth, Daniel Buren e altri contemporanei) frasi ad effetto: “Ammiro la tua bellezza, e sono sotto di essa”, come una tribade. Con senso critico, poi, rilevando anche lui la costruzione a freddo del quadro: “Il primo colpo di genio è aver messo nel quadro due donne, e non solo una, mentre nella versione biblica la serva aspetta fuori; due donne associate nello stesso lavoro, le braccia frapposte, che riuniscono i loro sforzi muscolari sullo stesso oggetto: vincere una massa enorme, il cui peso supera le forze di una sola donna. Non sembrano due lavoranti sul punto di sgozzare un porco? Tutto ciò assomiglia a un’operazione di chirurgia veterinaria. Nel frattempo (secondo colpo di genio), la differenza sociale delle due compagne è messa in risalto con acume: la padrona tiene a distanza la carne, ha un'aria disgustata anche se risoluta; la sua occupazione consueta non è quella di uccidere il bestiame; la serva, al contrario, mantiene un viso tranquillo, inespressivo; trattenere la bestia è per lei un lavoro come un altro: mille volte in una giornata essa accudisce a delle mansioni così triviali”. L’attrazione estetica – l’emozione erotica – riconducendo anche alla novità di genere: “È qui la forza dei quadri della Gentileschi: nel capovolgimento brusco dei ruoli. Una nuova ideologia vi si sovrappone, che noi moderni leggiamo chiaramente: la rivendicazione femminile”.
Artemisia fu anche abile venditrice – per esempio nella corrispondenza col collezionista don Antonio Ruffo di Bagnara, principe della Scaletta e della Floresta, nella raccolta pubblicata dieci anni fa da Eva Menzio. In grado di organizzarsi in sessant’anni tre o quattro carriere distinte di pittrice, tante le città dove visse. 
Artemisia Gentileschi e il suo tempo, Museo di Roma, palazzo Braschi, piazza Navona


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