L’esordio è da romanzo di avventure.
Come gli spartachisti, accerchiati sul Vesuvio, sfuggono calandosi per la parete
più scoscesa, quindi non presidiata, con corde che hanno nottetempo intrecciato,
di viti selvatiche, “particolarmente resistenti”. Lo svolgimento è da
puntiglioso praticante della storia antica anche nei suoi sparsi frammenti. E
un’analisi del fenomeno Spartaco, più che un racconto.
Spartaco sopravvive nell’immaginario
come una figura tragica: destinato a morire nell’arena per il divertimento
della plebe, gladiatore schiavo, perché non ribellarsi, morendo di una morte onorevole in
battaglia? È il tema del film. È il dramma di Spartaco, se se ne vuole fare un
dramma, anche corrivo: capo di una rivolta senza popolo, senza territorio,
senza mezzi, che mise Roma a repentaglio, in pochi mesi facendosi padrone dell’Italia,
con un esercito di sbandati, che si armava col bottino degli sconfitti, e si approvvigionava
con le razzie.
Schiavone ne fa un altro. Mettendo a
frutto la sua pratica di ogni pur minuto lacerto di storia romana, ricompone la
figura del ribelle che tenne in scacco Roma nel 73-72 a.C.: un “guerriero
valoroso e «innocente» (Varrone)”. Non un agitatore, ma un condottiero e un
profeta: “Egli non voleva essere solo un condottiero; voleva essere, sia pure
confusamente, un profeta, e un profeta con le armi in pugno”. E nell’inverno
che passa a Turi e Metaponto quasi un liberatore, benché in urto con la
popolazione. Non capopopolo di una lotta di classe, quale è passato nella
leggenda, tantomeno uno schiavo che vuole tornare libero alla sua patria, la
Tracia, ma un condottiero che attacca Roma. Con traci, galli e germani schiavi come lui in Italia, e con italici antiromani, una sorta di Annibale. Forse anche
convinto dalla sua donna, sacerdotessa di Dioniso, divinità di origine tracia,
di un destino glorioso. Al quale non seppe convogliare le città, restando alla
fine isolato.
Un’avventura in effetti eccezionale. Considerando
che quella di Spartaco era un’armata Brancaleone, raccogliticcia, di schiavi,
disertori, contadini espropriati. In urto con le popolazioni più che con le
armate di Roma: la sua apparizione comportava “un’improvvisa esplosione di violenza: sangue, sevizie, incendi, stupri”.
Con truppe raccogliticce. E senza un progetto.
La vicenda di Spartaco Schiavone fa
esemplare della sua critica alla storiografia che vuole la repubblica romana
sfiancata dalla lotta di classe. “In realtà, molto al di là del solo episodio di Spartaco, nessuna forma di «coscienza di classe» è mai esistita nella storia di Roma - e tantomeno gli schiavi ne hanno mai avuta una”. Mentre “la
schiavitù era a Roma un’istituzione totale”. Essenziale non solo “dal punto di
vista produttivo economico”, essa toccava anche “ogni aspetto del’esperienza civile,
morale ed emotiva della società: dalla vita familiare all’immaginazione, alla
sessualità, al tempo libero”. In Italia nel I secolo a.C., gli anni di Spartaco,
un terzo della popolazione era di schiavi. Una società senza schiavi era
impensabile: gli stessi spartachisti finiranno “accecati dal riverbero di un
simile insormontabile blocco”. Ma una storia della schiavitù è ancora da fare –
il classicista Schiavone si limita a ironizzare: “Era anche questo quello che noi
chiamiamo antichità classica”. Ribadisce però che su di essa non si innescò mai
una lotta di classe.
Per quanto invasiva e risentita, la
schiavitù era un modo di essere, mai radicalmente contestato. “Nessuna forma di
«coscienza di classe» è mai esistita nella storia di Roma – e tantomeno gli schiavi
ne hanno mai avuta una”. Spartaco “di certo non voleva abolire la schiavitù:
niente ci autorizza a pensarlo. I prigionieri romani furono trattati da lui
come schiavi, e da schiavi vennero fatti combattere e morire. L’idea di una
società senza lavoro servile non apparteneva alle culture del Mediterraneo
antico”.
Aldo Schiavone, Spartaco, Einaudi, pp. 155 € 12
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