martedì 27 dicembre 2016

Spartaco come Annibale, senza lotta di classe

L’esordio è da romanzo di avventure. Come gli spartachisti, accerchiati sul Vesuvio, sfuggono calandosi per la parete più scoscesa, quindi non presidiata, con corde che hanno nottetempo intrecciato, di viti selvatiche, “particolarmente resistenti”. Lo svolgimento è da puntiglioso praticante della storia antica anche nei suoi sparsi frammenti. E un’analisi del fenomeno Spartaco, più che un racconto.
Spartaco sopravvive nell’immaginario come una figura tragica: destinato a morire nell’arena per il divertimento della plebe, gladiatore schiavo, perché non ribellarsi, morendo di una morte onorevole in battaglia? È il tema del film. È il dramma di Spartaco, se se ne vuole fare un dramma, anche corrivo: capo di una rivolta senza popolo, senza territorio, senza mezzi, che mise Roma a repentaglio, in pochi mesi facendosi padrone dell’Italia, con un esercito di sbandati, che si armava col bottino degli sconfitti, e si approvvigionava con le razzie.
Schiavone ne fa un altro. Mettendo a frutto la sua pratica di ogni pur minuto lacerto di storia romana, ricompone la figura del ribelle che tenne in scacco Roma nel 73-72 a.C.: un “guerriero valoroso e «innocente» (Varrone)”. Non un agitatore, ma un condottiero e un profeta: “Egli non voleva essere solo un condottiero; voleva essere, sia pure confusamente, un profeta, e un profeta con le armi in pugno”. E nell’inverno che passa a Turi e Metaponto quasi un liberatore, benché in urto con la popolazione. Non capopopolo di una lotta di classe, quale è passato nella leggenda, tantomeno uno schiavo che vuole tornare libero alla sua patria, la Tracia, ma un condottiero che attacca Roma. Con traci, galli e germani schiavi come lui in Italia, e con italici antiromani, una sorta di Annibale. Forse anche convinto dalla sua donna, sacerdotessa di Dioniso, divinità di origine tracia, di un destino glorioso. Al quale non seppe convogliare le città, restando alla fine isolato.
Un’avventura in effetti eccezionale. Considerando che quella di Spartaco era un’armata Brancaleone, raccogliticcia, di schiavi, disertori, contadini espropriati. In urto con le popolazioni più che con le armate di Roma: la sua apparizione comportava “un’improvvisa esplosione  di violenza: sangue, sevizie, incendi, stupri”. Con truppe raccogliticce. E senza un progetto.
La vicenda di Spartaco Schiavone fa esemplare della sua critica alla storiografia che vuole la repubblica romana sfiancata dalla lotta di classe.  “In realtà, molto al di là del solo episodio di Spartaco, nessuna forma di «coscienza di classe» è mai esistita nella storia di Roma - e tantomeno gli schiavi ne hanno mai avuta una. Mentre “la schiavitù era a Roma un’istituzione totale”. Essenziale non solo “dal punto di vista produttivo economico”, essa toccava anche “ogni aspetto del’esperienza civile, morale ed emotiva della società: dalla vita familiare all’immaginazione, alla sessualità, al tempo libero”. In Italia nel I secolo a.C., gli anni di Spartaco, un terzo della popolazione era di schiavi. Una società senza schiavi era impensabile: gli stessi spartachisti finiranno “accecati dal riverbero di un simile insormontabile blocco”. Ma una storia della schiavitù è ancora da fare – il classicista Schiavone si limita a ironizzare: Era anche questo quello che noi chiamiamo antichità classica”. Ribadisce però che su di essa non si innescò mai una lotta di classe.
Per quanto invasiva e risentita, la schiavitù era un modo di essere, mai radicalmente contestato. “Nessuna forma di «coscienza di classe» è mai esistita nella storia di Roma – e tantomeno gli schiavi ne hanno mai avuta una”. Spartaco “di certo non voleva abolire la schiavitù: niente ci autorizza a pensarlo. I prigionieri romani furono trattati da lui come schiavi, e da schiavi vennero fatti combattere e morire. L’idea di una società senza lavoro servile non apparteneva alle culture del Mediterraneo antico”.
Aldo Schiavone, Spartaco, Einaudi, pp. 155 € 12

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