Una memoria rinfrescante, raccontata con
semplicità. Ai quasi novant’anni della narratrice – preludio, si spera, di una
seconda narrativa, degli anni che visse con Claude Lévi-Strauss. La decisione
di scrivere è stata presa nel 1995, ma il mémoir
è stato scritto nel 2010, dopo la morte del marito. Lui non voleva? Può darsi,
Monique ha una visione tutta particolare della guerra. La stessa,
probabilmente, che non le ha trovato in Italia altro editore che il cardinale
Ravasi, nume tutelare delle Dehoniane – in originale le prestigiose edizioni parigine
du Seuil.
Qui Monique Roman, nata nel 1926, narra
come fra i 12 e i 19 anni, tra il 1938 e il 1945, visse in Germania, con la
madre ebrea americana e il padre belga, ingegnere per una ditta tedesca. Anche
nei mesi, dopo l’invasione del Belgio, in cui il padre fu internato come
nemico: l’ing. Roman assolutamente ci teneva a lavorare in Germania. Nel 1945 i
genitori si separano, e Monique può tornare a Parigi con la madre e il fratello
minore, dopo la liberazione. Quindi tentare l’esperienza americana, dove è
privilegiata in tutto, nell’agiatezza, gli studi, il lavoro, ma che non sente
sua. Dopo una pausa a Milano, rientra a Parigi. Riprende gli studi di medicina,
e soprattutto diventa un’icona come mediatrice culturale, “possedendo” tre
lingue nello stesso grado, il tedesco e l’inglese come il francese. Per conto
di Jacques Lacan soprattutto, al quale legge Melanie Klein, Shakespeare, Freud
et al., di Bataille e di altri. Fino al settembre 1949, all’incontro e al
matrimonio con Lévi-Strauss.
Nulla di eclatante, a parte la scelta di
vivere la guerra in Germania. Ma sì di inquietante, sottilmente. In Germania la famiglia Roman
vive bene, non fa cattivi incontri, non è e non si sente spiata. Lavora anche
la madre. Monique fa il liceo, bene accolta a scuola benché abbia a lungo
problemi col tedesco, e dopo di lei lo farà il fratello, e va all’università di
medicina. Un ramo materno continua a prosperare a Vienna. Monique è stata
battezzata a undici anni, nel 1936, insieme col fratello, forse nel nome del
padre, benché socialista e miscredente. Ma poi anche la madre si fa battezzare –
e si fa confermare il battesimo da un vescovo dopo la guerra. La liberazione è
attesa e benvenuta, ma prima ci sono state le bombe incendiarie al napalm dell’aviazione
Usa.
È una sorta di viaggio spensierato nella
guerra e nel Terzo Reich, alla maniera di Fey von Hassell, o di Mary de
Rachewiltz, anche se conscio dei pesi e degli schieramenti in lotta. La stessa
vita di castelli e grandi residenze, viaggi, conoscenze sempre selezionate – e psicoterapie:
tutte le donne di parte materna sono in analisi nella seconda metà degli anni
1930, a Parigi e a Vienna. La stessa industriosità, senza nemmeno un’ombra di handicap
femminile. L’esuberanza, l’ottimismo, la voglia di vivere.
Il racconto di una personalità. Ma anche
un’altra narrazione della guerra – come dice la quarta di copertina: “Uno
sguardo originale sulla vita quotidiana ai tempi di Hitler”.
Monique Lévi-Strauss, Un’infanzia nella bocca del lupo,
Edizioni Dehoniane, pp. 177 € 14
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