Sono lontani i tempi di De
Gaulle, che invitava protervo a diffidare della perfida Albione, che pure lo
aveva accolto in guerra. E anche quelli dei diktat a Bruxelles di Margaret
Thatcher, “o si fa come dico io o altrimenti…”. L’accordo da separati in casa
tra Cameron e la Ue è tra due debolezze. La Gran Bretagna è molto lontana dallo
splendido isolamento, solo interessata a qualche immigrato in meno. L’Europa
non è unita e non lavora più per unirsi: non solo l’entusiasmo, ha perso anche
le idee.
L’accordo con la Gran
Bretagna è anche l’avvio di una serie di accordi da separati in casa con questo
e quello, per prima la Polonia, poi l’Ungheria. Di una Unione di ridotta à la carte, in cui ognuno prende ciò che
vuole. Senza pagare.
sabato 20 febbraio 2016
Monti non è europeista
“Lei sta facendo correre
grossi rischi all’Italia e al’Europa”, ha ammonito Mario Monti al Senato il
presidente del consiglio Renzi: “ei non manca occasione per denigrare l’Unione
introducendo negli italiani una pericolosissima alienazione nei confronti
dell’Europa”. Un’indignazione inversamente proporzionale al giudizio: l’ex capo
del governo “salito in politica” si professa europeista unico, mentre affonda
l’Unione in quello che è il suo gorgo, l’autoreferenzialità. Non un’Unione di citadini
nell’interesse dei cittadini, cittadini ma una entità astratta, al meglio – in
concreto di burocrati espressione di interessi economici e nazionali.
La cosa si può complicare con
la nascita politica e il governo di Monti. Succube di un’Europa che ha portato
l’Italia a una crisi ancora senza via di uscita. Anche perché caparbiamente ce
la tiene dentro. Ma è inutile maramaldeggiare: l’uomo ha i suoi limiti. Da economista,
il primo economista al vertice dell’Italia – ci fa Einaudi, ma era il capo
dello Stato, al di sopra delle parti- che non ha dato una sola ricetta utile e
tante invece dannose. E come fa il professore Monti a non vedere il disastro
che l’Europa ci ha combinato e ci sta combinando, bancari e, ancora una volta,
sul debito? I disastri, mettendoci dentro anche l’Ucraina, gli immigrati, la
Siria e la Libia.
Si può essere servi con
onore. Ma non servi sciocchi: non è venuto mai il dubbio al professore che l’ “Europa”,
la sua Europa, lo onori perché lo ritiene un servo sciocco? Obbedire alle cancellerie potenti non è europeismo - quanto potente è Berlino Monti avrebbe dovuto saperlo da commissario a Bruxelles alla Concorrenza.
Non si è europei sottomettendosi
al peggio. A un duopolio Germania-Francia palesemente inetto – che è poi un
monopolio merkeliano, a fronte dell’inettitudine di Sarkozy e Hollande. O a non
tanto oscuri diktat di “Bruxelles” o “Francoforte” – da intendere la
Bundesbank, non la Bce - che provocano guai invece di cercare soluzioni e
miglioramenti. Riprova di questa falsa ipostatizzazione è l’approccio
all’opinione pubblica, considerata passiva: non c’è da indirizzarla,
nell’opinione del professor Monti, ma di comprimerla e sacrificarla. A un totem
Europa, pure oggi così brutto. Migliorare questo totem è invece l’impegno d’ogni
anche piccolo europeista.
L’Habeas Corpus di Pignatone
“Maha (Abdelrahman) era al funerale di Giulio, è
stata portata via dalla polizia e interrogata dal procuratore in circostanze
che noi consideriamo estremamente insensibili, non le sono state date
sufficienti spiegazioni e non parla italiano. Era in Italia per piangere
Giulio, quello che è stato detto ai media italiani dopo quel colloqui non ha
basi, sono state rivelate cose che si dichiara che avrebbe detto, ma lei non ha
detto. Non era in grado di capire cosa veniva detto sul suo conto”. In due frasi sei o sette capi d’accusa
verso una polizia e una giustizia proterve e infamanti.
Il professor David Runciman, capo del dipartimento Studi
Internazionali di Cambridge, è preciso e letale in intervista con Viviana Mazza
per il “Corriere della sera”. Senza
contare che la ricercatrice di Cambridge dottoressa Abdelrahman, tutore (direttore
di ricerca) di Giulio Regeni, è stata sequestrata e abusata dalla Procura di
Pignatone perché egiziana di origine.
Il professor Runciman viene
dalla cultura dello “Habeas
Corpus”,
troppo per i Procuratori italiani, che non sanno l’inglese – ma è latino (a meno che questo “habeas corpus” non lo intendano come
afferrare la preda, sbattere dentro: nulla è impossibile per un giudice
italiano).
Il mondo è vario, la natura esiste
Il
sottotitolo è: “Sull’inconveniente di collegare idee morali a certe azioni
fisiche anche se non ne comportano”. L’interlocutore B. del dialogo, l’autore,
si scandalizza per certi usi che il comandante Bougainville ha testimoniato nel
suo “Viaggio intorno al mondo”. Per esempio “l’infibulazione delle donne; e da
lì tanti usi di una crudeltà necessaria e bizzarra, la cui causa si è persa
nella notte dei tempi, e mette i filosofi alla tortura”. Per un intreccio
perverso tra divino e umano nelle istituzioni storiche: “Un’osservazione
abbastanza costante è che le istituzioni soprannaturali e divine si fortificano
e si eternizzano, trasformandosi alla lunga in leggi civili e nazionali; e che
le istituzioni civili e nazionali si consacrano, e degenerano in precetti
soprannaturali e divini”. Le “istituzioni soprannaturali e divine” è una
contraddizione in termini, ma il ragionamento è chiaro: cosa è storico e cosa è
divino, è un garbuglio. Ma non c’è dubbio che certi divieti e obblighi sono
infondati e inconsistenti: col “Supplemento” l’illuminismo si apre al
naturalismo, ma in chiave sempre di ampliamento del perimetro delle libertà. .
Antonio
Santucci, studioso di Gramsci, ha preparato questa riproposta in chiave di
etnoapertura. Del viaggio di pura scoperta, non a fini imperialistici. Della
molteplicità delle culture, senza gerarchie – tema già di Montaigne. Ma non di
indifferenza, né senza un criterio di razionalità e giustizia: è questo il problema
di Diderot. Il capitano di vascello barone Louis-Antoine de Bougainville aveva
prodotto nel 1771 un enciclopedico “Viaggio intorno al mondo”, dopo un viaggio
per e da Tahiti nel 1768. In cui parlava più di cose non viste che viste, ma
esaurientemente. Tanto da scuotere l’antinaturalismo di Diderot, che subito
recensì il “Viaggio” e pochi mesi dopo lo arricchì di questo “Supplemento”
teorico.: Il cui interesse, antiquario e contemporaneo, è inesauribile. Dal
semplice. Le previsioni del tempo, allora per Diderot come per noi oggi in Italia:
imprevedibili – in Svizzera dicono il minuto esatto e anche la strada dove
pioverà. O il viaggio come spostamento del punto di osservazione. O le
“riduzioni” dei gesuiti nel Paraguay come un sistema di crudeltà spartana:
“Quei crudeli Spartani in tonaca nera usavano i loro indiani come Lacedemoni i loro iloti”. Al complesso.
Si prenda
l’insularità come origine degli stermini: antropofagia, massacro di bambini,
sacrifici rituali, infibulazione delle donne, castrazione dei maschi. Tutte
cose non più insulari, ma sì all’origine, come reazione alla sovrappopolazione
in un perimetro ristretto – la cosa si potrebbe applicare alle interminabili
guerra nella piccola e popolosa Europa. O l’incesto non innaturale, considerata l’origine dell’umanità secondo i testi
sacri. Ma contrario all’ordine sociale: “Che diverrebbero al scurezza di un
capo e la tranquillità di uno Stato, se tutta una nazione composta da parecchi
milioni di uomini si trovasse raccolta attorno a una cinquantina di
capifamiglia” – l’asfissia della società oligarchica oggi. O la condanna
dell’atto sessuale: “Come è accaduto che un atto il cui scopo è così solenne, e
al quale la natura ci invita col richiamo più potente; che il più grande, il
più dolce, il più innocente dei piaceri sia divenuto la fonte più feconda della
nostra depravazione e dei nostri vizi?” Anzitutto “per la tirannia dell’uomo,
che ha convertito il possesso di una donna in una proprietà”. Il “possesso di una
dona” oggi suona ridicolo, me altre ragioni no: il sesso è tabù in virtù delle
leggi, nonché degli usi, quando privilegiano l’unione coniugale, e “per la
natura della nostra società, in cui la diversità di fortuna e di rango ha
istituito convenienze e sconvenienze”.
Diderot
si spinge a considerare l’anomia in Calabria come un allargamento dell’area di
libertà, ma questo necessiterebbe di un altro supplemento.
Denis Diderot,
Supplemento al viaggio di Bougainville,
Editori Riuniti Univ. Press, pp. 132 € 14venerdì 19 febbraio 2016
Letture - 247
letterautore
Basile – Per i 450 anni
della nascita nemmeno un articolo di giornale, nonché una celebrazione, uno
studio, una riproposta, un francobollo. Di Giambattista Basile, l’autore del
“Cunto di li cunti”. Del primo trascrittore e rielaboratore delle fiabe, prima
di Perrault, madame de Beaumont, i fratelli Grimm – delle stesse fiabe peraltro,
più o meno. È uno dei segni dela “scomparsa di Napoli” dall’Italia. Ma è anche
vero che la scomparsa di Basile è più antica: lo ha riscoperto Croce, che lo
volse in italiano, poi più nulla.
L’edizione di Croce è del 1925. Riproposta ripudiata perché era anche l’anno III E.F? Non c’è un crivello letterario per cernere la storia alle varie date?
L’edizione di Croce è del 1925. Riproposta ripudiata perché era anche l’anno III E.F? Non c’è un crivello letterario per cernere la storia alle varie date?
Basile manca anche a Propp, lo studioso delle fiabe.
Candido – “Un romanzetto
leibniziano” lo dice Gadda – nella filippica contro Foscolo, “Il guerriero, l’amazzone
etc.”. O non ne è la satira, del migliore dei mondi possibili? Ma è vero che il
romanzetto è leibniziano suo malgrado, perché Leibniz era – un po’ – Voltaire.
Citazione
–
È sempre un furto, ma talvolta, anche se riconosciuto, con destrezza –
furbescamente, tradendo. Rousseau amava la “Gerusalemme liberata”, assicura Starobinski,
soprattutto in vecchiaia, fino a tradurre, sintetizzandolo in prosa, l’episodio
di Sofronia. Che utilizzerà infine nelle “Fantasticherie”. Ma artatamente:
“Magnanima menzogna! Or quanto è il vero\
Sì bello, che si possa a te preporre?”. Per dire che si può essere
bugiardi. Mentre Sofronia non è bugiarda, compie un atto di resistenza contro
una ingiustizia – concetto a Rousseau, e a tutti i romantici, estraneo.
Corpo – “The
primacy of Matter over Thought” è per Man Ray un bel corpo femminile, ben
fotografato tra le ombre. Non si può dire che abbia torto.
Don
Giovanni –
Peter Handke lo fa autobiografico – un narcicista al quadrato. E la prima
avventura, con la sposa che sottrae al matrimonio, gliela fa godere soprattutto
all’addio. “Entusiasta si separò da lei: paradiso degli addii”. Dopo questa scoperta,
gli incontri si moltiplicano, all’ingrosso, al minuto e all’istante.
Il
don Giovanni di Handke è anche peripatetico, come tutti gli altri, ma più per
una condanna – un po’ come l’ebreo errante. Finché non incontra la donna in Norvegia.
Che, “secondo le concezioni del luogo”, è “malata, una folle, una disturbata”.
È allora che s’innamora. Fino a
divernirne il portavoce e il portabandiera, di lei e di tutti gli “umiliati, i
deconsiderati”. Gli anonimi, l’esito è la perdita dei nomi.
I
“rovesciamenti” sono inseparabili evidentemente dalla cultura tedesca.
Inadeguatezza
–
La nozione forse più ricorrente della psicoterapia oggi, che assomma a un senso
di vergogna uno contemporaneamente di superiorità (nel giudizio, nelle attese),
è probabilmente la figura più ricorrente della narrativa, prima della scomparsa
del personaggio. Russa: Gončarov, Gogol’, Turguenev, Leskov, Dostoevskij,
Tinyanov, Bulgakov, lo stesso esuberante Majakovskij, con le sue improvvise
tristezze. Francese: Flaubert (Félicité, Emma Bovary, Frédéric e Rosanette), quelli dell’atto
gratuito di Gide, l’apocalittico Céline, nel suo Bardamu e in proprio, le stesse
anti-figure di Sartre. Italiana: Soldati, Calvino (un modo più giusto di leggerlo).
E Melville, naturalmente, che ne è pieno.
Ossola
ne trova la radice – dell’“inadeguato” come “idiota” - in don Chisciotte. Ma il
cavaliere è un combattente, l’idiota è en
retraite, concettuale, morale (per scelta), per nascita, famiglia, educazione,
struttura mentale (culturale), perché sconfitto. Anche se in realtà opera – a
senso - l’“affermazione negativa” di Pontalis, l’ossimoro che Ossola cita in
“En pure perte”.
Il
personaggio, quindi, a tutto tondo si vuole “inadeguato”. È – era - anche un modo
per sbozzarlo, delinearlo, mutarlo, rivoluzionarlo in corso d’opera.
Lettura
–
“Possiamo contare su cinquemila lettori, non di più”, lamentava Arbasino
cinquant’anni fa, quando cominciava la sociologia della lettura. Con la prima
industrializzazione dell’editoria e il marketing. Da allora è una costante: in
Italia si legge poco. Cosa che il “nasometro” sembra confermare: non si leggono
tanti romanzi come in Inghilterra, o in Francia, tanti e così voluminosi best-seller
come negli Usa, e forse, ma non è detto, nemmeno tanta filosofia come in
Germania – non è detto che la Germania legga filosofia, non sembra. Ma una cosa
che l’Istat contesta, contando a in Italia 24 milioni di lettori di libri, di
almeno un libro. Dei quali il 14,3 per cento “lettori forti”, coloro che
leggono in media almeno un libro al mese: tre milioni e mezzo. Il 64,4 per
cento delle famiglie italiane, due su tre, ha in casa fino a 100 libri, e il
7,4 per cento più di 400. Solo il 9,1 per cento dichiara di non avere in casa nemmeno
un libro – nemmeno uno di devozioni?
È
anche vero che solo il 42 per cento degli italiani dai sei anni in su dichiara
di aver letto un libro – solo il 28,8 per cento al Sud. Ma va meglio altrove?
Se
si pubblicano circa 62 mila titoli nuovi l’anno, per una vendita di circa 100
milioni di copie, queste cifre fanno una tiratura media di 1.800 copie a titolo.
Non disprezzabile, anche se bisognerebbe sapere quanto di queste tirature
finisce ai remainders o al macero.
Il
lettore del resto è un consumatore diverso. Mentre di ogni altro prodotto che
non risponde ai requisiti di qualità per cui è stato venduto si può chiedere il
cambio o il rimborso, del libro no. Il libro è anche un prodotto che per legge
dev’essere venduto a caro prezzo. La legge di Ricardo Franco Levi proibisce che
il libro si venda a sconto, mentre del prosciutto questo è possibile, e di ogni
altra merce. Levi ha fatto male, ma può rimediare, introducendo il diritto al
rimborso se la merce non risponde alla presentazione (pubblicità,
presentazioni, recensioni).
Manzoni
–
“Sono gli insegnati, spesso, i primi nemici di Manzoni”, titola “Sette” le
Lettere al direttore. Manca la enne, certo, ma il titolo dice sbagliando la
verità: il romanzo non si legge volentieri. A dispetto delle tante elevate professioni di
alta fede manzoniana (o non saranno solo i siciliani, paraculi? di devoti si citano
da qualche tempo solo Sciascia e Camilleri), il suo è un romanzo storico ottimo
ma con un plot debole e anzi debolissimo. Di personaggi e storie che Manzoni
non capiva e non sentiva – giusto il conte zio – e non voleva imparare a
conoscere.
Più che storico, del resto, il romanzo
è satirico. Fa torto alla Spagna naturalmente, ma anche alla Lombardia nel
Seicento. Che non era la Scozia, e nemmeno terra incognita.
Secoli
–
Il Novecento è armato. No, quello è l’Ottocento, secondo l’Ingegnere Gadda
sardonico al meglio, “Conforti della Poesia”, in “Il tempo le opere”: “La
grande poesia ottocentesca disponeva di un armamentario che farebbe invidia ai
magazzini della Scala: i cimieri, i brandi, gli usberghi vi furoreggiano, i
destrieri, le pugne, le prore,le tubi, le torri, le selve, ne combinano d’ogni
maniera. Senza contare il serraglio: volatili e quadrupedi”. Così è.
Il Novecento è mortifero,
luttuoso, depresso e deprimente. Il Settecento è presto detto: impresentabile,
inemendabile, tanto è ragionevole e sa tutto. Qui ha ancora ragione l’Ingegnere:
“Ossessione immaginifica è quella d’un perpetuo celebrare , d’un interminato
sacerdozio preso le are e le tombe. I gesti rituali degli officianti, lo
spargimento dei sacri liquidi dalle sacre pàtere sul cubo dell’ara. Fronde di
alloro e di mortella, e libagioni di latte e coltivazione delle api …., di
profusione di aggettivi patronimici greci su tutti i cimiteri di memoria…”.
Si può
anche dire l’Ottocento celebrativo, contento di sé – positivamente positivista.
È il secolo del primo grande sbalzo concentrato della tecnica – solo un secolo
dopo sopravanzato, a Fine Novecento, dall’elettronica. E il secolo di maggiore
creazione di ricchezza nella storia, dell’Europa e degli Usa: le tracce sono
ampie nella letteratura, francese, americana, perfino in Tolstòj, nella “Karenina”.
letterautore@antiit.eu
La politica fagocitò il comico
Il
pubblico ride. Ma perché ha pagato il biglietto. Alla fine se ne va avvilito:
il Grillo comico effervescente non fa più spettacolo, la politica se ne è
impadronita – l’ha ingoiato, lo ributta
predigerito.
Il comico
tornato al teatro dopo la politica dovrebbe fare la gag di se stesso, ma Grillo
non ci riesce. Non se lo propone nemmeno, e questo è anche peggio: è come se si dichiarasse vinto in partenza. Si ha voglia
di parlarne male, la politica è un animale infettivo, di civetteria
irresistibile e superba, anche quando non è in forma. Essendo il potere, l’antitesi
esatta del comico.
Beppe
Grillo, Grillo vs. Grillo, teatro
Brancaccio a Romagiovedì 18 febbraio 2016
Il mondo com'è (250)
astolfo
Bombardamenti – Si fa la storia solo
dei bombardamenti aerei anglo-americani, ma la tecnica del bombardamento
massiccio, con i cacciabombardieri, fu messa a punto e applicata alla “guerra totale”
– così come il concetto stesso e la pratica della guerra totale - dalla Germania:
nella guerra di Spagna, a Guernica e altrove, e poi, a partire dal 1939, in Polonia,
sull’Inghilterra, da Londra a Coventry, nelle Fiandre, nel Nord-Est della Francia
– Roubaix e altrove. In Francia, allo scoppio della guerra, la popolazione parigina prese per
prima misura lo sfollamento in campagna, dando per scontato che la città
sarebbe stata bombardata. “Le nostre città sono solo una parte\ di tutte le città
che abbiamo raso al suolo”, commenterà Brecht nell’“Abicì della guerra”.
In nota a una delle foto, il primo
bombardamento inglese su Berlino, la notte del 10 settembre 1940, Brecht stesso
dà però poi la paternità-responsabilità del bombardamento indiscriminato agli
anglo-americani - effetto della propaganda postbellica di Berlino Est:
“Dal 1940 all’aprile 1945 sulla sola
Germania furono sganciate:
peso del e bombe in tonnellate = 1 300 000
vittime =
500 000
percentuale delle vittime per tonn. = 0,38”
Corruzione
– Ha confini labili. Nel mondo mussulmano, nel quale il furto è un delitto
grave, la corruzione di fatto non esiste: fa parte dell’economia del dono. Fu
un grave problema per le multinazionali negli anni 1970 – e lo è tuttora per le
multinazionali italiane in Italia, presso alcuni giudici – quando una commissione del Senato Usa intese
perseguire il pagamento di mediazioni d’affari. Che nel mondo arabo, e in Iran,
Pakistan, India e altrove, grosso modo nei mercati islamici, costituivano
pratica corrente e anzi necessitata. Sia dove gli Stati sono patrimoniali, come
nella penisola arabica, sia in Iran, Pakistan, Malesia, Indonesia, nella stessa
India, etc., paesi istituzionalmente moderni. La corruzione attraverso la mediazione,
perseguita quarant’anni fa sulla scia degli Usa, fu la causa prima della caduta
dello scià: era pratica corrente dei suoi familiari, specie della sorella Ashraf.
La Malesia ne è esempio recente. Si è chiuso tre settimane fa
con un’assoluzione l’inchiesta a carico del primo ministro Najib Razak sul cui
conto erano stati trovati 681 milioni di dollari. Il sospetto era che li avesse
sottratti a un gruppo pubblico andato fallito, di cui come primo ministro era
il presidente. Si è invece dimostrato che erano un dono personale dell’Arabia
Saudita, e quindi non imputabile.
In realtà, il fatto non si è dimostrato. Questo lo ha
stabilito il Procuratore Generale Mohammed Apandi. Che era stato nominato da
Razak. Il quale è figlio di un ex primo ministro. Un dono di 681 milioni sembra
troppo. Ma il Procuratore Generale ha assicurato che 620 milioni sono stati
restituiti ai reali sauditi, senza specificare il motivo del dono né della
restituzione. E che 61 sono stati spesi,
“non per fini personali”. Ma senza dire quali. La Malesia ha anche una Autorità
Anti-corruzione. Che ha attestato anch’essa l’origine dei fondi quale donazione
saudita. Senza scandalo. La supposizione è che il finanziamento sia andato all’islamizzazione
del paese: la Malesia è uno Stato multirazziale e multiconfessionale, che da
qualche decennio è entrato nell’orbita islamica. Ma non è detto.
Napoleone – Passa ancora
per liberatore, mentre fu sofferto dai contemporanei come conquistatore. Nei
capricci di Goya, nelle caricature di Rowlandson, o a Venezia, di cui chiuse la
storia millenaria. Senza contare le predazioni, a partire dall’Egitto, una
spedizione promossa a questo solo fine, e poi sua pratica costante, in Italia,
in Germania nelle Fiandre, in Spagna.
Profughi – Settant’anni fa
erano ebrei: la prima emigrazione di
massa nel Mediterraneo, di profughi, con mezzi di fortuna e centinaia di morti,
fu quella degli ebrei europei verso la Palestina subito dopo la guerra. Erano
un nucleo piccolo ma consistente di quei dieci milioni di displaced persons, come
verranno chiamati dalla sociologia negli anni 1980, profughi in genere dall’Est,
ma anche sopravvissuti ai lager
nazisti, che costituirono uno dei punti di crisi in Europa nel
1945-1946. Otto su dieci erano tedeschi, della Prussia, della Slesia
e della Galizia occupate dai russi e dai polacchi, e furono in qualche modo
sistemati in Germania. Dei restanti due milioni (polacchi, baltici, rumeni etc,
in fuga dal sovietismo o ex collaboratori della Germania occupante), 250 mila
circa erano ebrei: 70 mila sopravvissuti ai lager, centomila ebrei polacchi che
si erano salvati nella guerra in Unione Sovietica, e nel 1946 fuggirono dalla Polonia
dopo alcuni sanguinosi pogrom, e 80 mila circa sopravvissuti in Germania e
altri paesi occupati da Hitler.
Il
Salento divenne “la porta di Sion”, dove
confluirono per l’imbarco verso la Palestina almeno trentamila e forse quarantamila
(molti non avevano documenti) ebrei europei. Il governo italiano favoriva gli
imbarchi, un po’ per ragioni umanitarie, un po’ per calcolo: “La scelta di assecondare una iniziativa
carica di risvolti umanitari, che […] intralciava la strategia inglese nel
Mediterraneo, diveniva col tempo uno strumento per riaffermare una parziale
autonomia operativa dell’Italia”, ha scritto lo storico diplomatico Mario Toscano
(“La
porta di Sion: l’Italia e l’immigrazione clandestina ebraica in Palestina,
1945-1948”, 1990). I più passavano
dal Brennero - “lo stretto canale di un vasto imbuto”, Primo Levi. Due-tremila
al mese passavano il confine di notte, da campi a campi profughi di fortuna di là
e di qua del confine, mediamente in gruppi di un centinaio a notte.
Dei
17 campi profughi (DP, displaced persons)
organizzati in Italia dall’Unrra, un’agenzia Onu, la metà erano in Puglia, a Palese, Barletta,Trani, Bari, e quattro
nel Salento: Santa Maria al Bagno, Santa Maria di Leuca, Santa Cesarea e
Tricase. Santa Cesàrea Terme nel Salento conserva ancora le iscrizioni
in nero sulla calce bianca degli edifici dei punti di raccolta e di imbarco dei
profughi ebrei di tutta Europa per il Levante.
La
lunga didascalia di una foto americana di un giornale Usa che Brecht riutilizza
nell’“Abicì della guerra”, mostra una madre col bambino ripescati in mare
insieme con altre 180 persone, mentre 200 erano morte annegate, nel naufragio
di una carretta del mare, il “Salvatro”, sulle coste rocciose della Turchia. Come
oggi. Un’altra carretta, “Patria”, era esplosa con 1.771 persone a brodo. La
“Pentcho” si era incagliata su un’isola italiana con 500 imbarcati. La “Pacific”,
con 1.062 profughi, e la “Milos” con 710, erano state costrette a proseguire il
viaggio senza sbarcare in Palestina – allora amministrata dalla Gran Bretagna.
Un’altra nave, con 500 profughi ebrei, “fu rimandata di porto in porto per quattro
mesi”.
Rendita – È ferma
all’Ottocento, la rendita al 3 per cento, le obbligazioni delle ferrovie o
delle poste, e i titoli russi (oggi
cinesi), redditizi e sicuri. Mentre non esiste più. Né di fatto né concettualmente:
si investe, anche in obbligazioni, come al casinò. Ognuno lo vede. Ma la forza
dell’apparato (pubblicità) resta soverchiante. La rendita viene tenuta bloccata
sull’Ottocento, sul secondo Ottocento in realtà, epoca di relativa stabilità
finanziaria, quella che culminerà nella Belle Époque, nel balletto Excelsior e
nei piani di Pace Perpetua, dagli stessi che fanno professione di destabilizzarla: i banchieri d’affari e tutto il business finanziario, che prospera nei
sommovimenti, e i loro referenti nei giornali – l’informazione economica è per nove
decimi originata dagli ambienti d’affari.
Spread – È una clava e
non una unità di misura. È un differenziale, ma non un misuratore inerte: è un
rapporto fra due entità analoghe, dei quali l’una è più o meno favorita dell’altra,
ma in rapporto vicendevole. Nel caso del debito pubblico in Europa, in cui i
debiti nazionali si valutano in rapporto al debito tedesco, il debito di
riferimento, ogni rincaro degli altri debiti nazionali è un alleggerimento del
costo del debito tedesco. La Germania ha interesse a tenere gli spread alti? Sì.
Stabilità – “La sinistra di
Hollande in frantumi”, titola a tutta pagina – grafica inconsueta – “Le monde”.
Senza che la Francia si strappi i capelli. Non perché la sinistra che governa
il paese è divisa. Né perché il presidente si distrae con le donne: “Julie
Gayet première dame clandestine”, titola
“L’Express”, senza sbracciarsi a chiedere dimissioni. Nemmeno perché il
presidente possa essere – Hollande lo è, dopo Sarkozy - un improvvisatore e
forse un incapace. Hollande, il presidente, è stato eletto per un termine, e
per quel termine governa – non è detto che con elezioni anticipate si abbia un
governo migliore.
astolfo@antiit.eu
La madre aguzzina
“È furba,
sleale, perfino ipocrita. Ma è mia madre. E questa è l’ultima volta che la vedo…”.
È la madre propria della scrittrice. Che l’ha abbandonata a quattro anni, a Berlino nel
1941, col fratellino di pochi mesi, mentre il padre era al fronte. Una madre
mai rivista, se non fuggevolmente trent’anni dopo, nel 1971, e ora dopo altri
27 anni, nel 1998, in quello che sarà l’incontro finale, in una casa di riposo,
tra i tentacoli dell’alzheimer. Due ore di colloquio incerto, che è piuttosto un vaneggiare, ma un racconto
mozzafiato.
Nel 1971
la madre si fa rifiutare con l’offerta di monili e oggetti d’oro che non
possono non suscitare memorie orrende. Qui è mezzo smemorata, ma non abbastanza
da non inalberare l’orgoglio di essere stata quello che è stata, di aver fatto
quello che ha fatto. Non ingenua, mai leale, che dalla figlia anzi vuole solo
estrarre, anche alla fine, un po’ di consolazione, continuando ad abusarne. Ripetutamente,
la figlia non può che trovarla, anche in questo incontro, a sessant’anni, con
una donna che non rivedrà più, invariabilmente “bugiarda, opportunista,
fanatica, infida”, “scaltra, perfida”, “crudele, insensibile”. Il racconto è di
una che gioca a fare la madre tra le pause della smemoratezza. Un gorgo morale.
Ci sono
tante persone cattive al mondo, e alcune sono madri. Ma non si raccontano. Ci
sono molti padri di cui è possibile leggere indegni: violenti, con le mogli, le
figlie, anche con i figli, autoritari, incapaci, sciocchi. Le madri indegne no,
non se ne ricordano. Questa è particolare, anche se non rara, perché ha
abbandonato tutti per fare l’aguzzina, Waffen-SS orgogliosa, a Ravensbrück e
Auschwitz-Birkenau, campi di sterminio. Due fra i campi peggiori. Ravensbrück, lager femminile, non era propriamente di sterminio, ma la madre di Helga vi era impegnata con le cavie umane degli esperimenti
disumani sui sulfamidici e la sterilizzazione: si sceglievano le donne giovani
e ancora in forze, che venivano infettate o mutilate a vivo, e poi lasciate morire tra i
dolori. Una delle guardie “migliori, più forti ed efficienti” nei suoi dossier giudiziari,
entusiasta sempre, anche qui, da ultimo, benché prossima alla fine.
Un
racconto febbricitante, di tensione insopportabile. Emozionante: la scoperta
della madre aguzzina è tarda, del 1971, “allorché ti rividi dopo trent’anni”,
ricorda la scrittrice alla madre, “dopo l’abbandono nel 1941, e rabbrividisco
al ricordo dello sgomento che provai scoprendo che eri stata un membro delle SS.
E non eri pentita, anzi. Ancora ti compiacevi”. La stoccata finale, “è semplicemente
volgare”, è definitiva, ma non liberatoria. Come per le vittime dei lager, quell’esperienza resta non
cicatrizzata nella vittima figlia.
Schneider
rasenta il capolavoro, non fosse per alcune pagine documentarie sui lager. Un
tributo dovuto alla memoria, che però non fa contesto ma lo immemorializza nella
storia - lo diluisce nel paradigma della “madre SS”. Un contesto fuorviante,
nell’economia del racconto, da cui però si estraggono atrocità ancora trascurate. Di
Höss, il comandante di Auschwitz, l’agghiacciante si può registrare in esergo,
estrapolato dal suo processo e dal suo libro di memorie: “Il sentimento
dell’odio mi è sempre stato estraneo”. O dello sterminio polacco: “I nazisti
consideravano i polacchi una razza inferiore, tanto da vietarne la sepoltura in
terra consacrata. Temevano però la scomoda intelligencija locale, e avevano
deciso di sterminarla”.
La scrittrice
stessa è vittima di una certa Germania, seppure non del pregiudizio razziale: la
tragedia nazionale e storica è anche sua personale. Ottima scrittrice in italiano,
Helga Schneider è nata in Polonia da genitori austriaci. Il racconto è anche di
una persona, una scrittrice, che ha perduto per questo la madrelingua (l’italiano
ha cominciato a praticarlo dai tardi vent’anni), evento altrimenti impossibile,
tale è la forza del rifiuto, della sopravvivenza, della cancellazione del male.
E tuttavia non può strapparsi dalle radici materne, fisiologiche, malgrado la
sofferenza, la propria sofferenza – dalla colpa. Sembra facile rifiutare una madre
indegna, e invece non si può.
La madre
catalizza altri rigurgiti molesti. Dei berlinesi in stracci affamati tra le
macerie che si rifanno sugli Alleati accusandoli di sputare sulla Germania solo
perché ha perso la guerra. Un ricordo vero anche storicamente: è la sindrome
Heidegger, fino all’intervista postuma allo “Spiegel”. O di se stessa bambina,
di sei o sette anni, alla vigilia della Caduta, febbraio o marzo 1945, che partecipa invasata al linciaggio di una povera coppia
di ebrei, spinti fuori del rifugio dalla fame – salvati dalle guardie SS, per
essere avviati allo sterminio....
Il
racconto è anche di un’infanzia e un’adolescenza segnate dai rifiuti e gli
abbandoni, oltre che dai bombardamenti e dalla fame: una vita nei rifugi, e poi
tra collegi e correzionali. Col contrappunto grottesco della visita a Goebbels,
per i buoni uffici della sorella della matrigna, segretaria del supergerarca. E al
bunker di Hitler per la campagna di promozione del führer “umano e solidale”,
che offre ai bambini “casa, cibo e conforto” – all’inizio di dicembre del 1944,
poco prima della liquidazione in massa degli intellettuali antifascisti
deportati dai paesi occupati, l’operazione Notte e Nebbia. Sullo sfondo di
una pedagogia materna – antiquata? femminile? - tirannica e gelida, senza mai un segno di
affetto per i figli. Compresa una matrigna che rifiuta la bambina di primo
letto e la butta in casa di correzione. Mentre si appropria del bambino, lo fa passare per suo - squallida vicenda che annichilerà il ragazzo.
Inedito,
duro, tragico il racconto quando è della madre indegna, senza cura materna e
nemmeno umana, un essere di ghiaccio come i suoi occhi, di un rapporto quindi impossibile.
Nonché dell’immaterialità, anche se criminale, distruttiva, del fanatismo. Al quale
cioè non c’è rimedio. La madre indegna è in Irène Némirovsky, ma con cautela.
Helga Schneider ne ha avuto una che si autorappresenta da sola, ed è già troppo
crudele, non c’è bisogno di aggiungere.
Helga
Schneider, Lasciami andare, madre,
Adelphi, pp. 132 € 9mercoledì 17 febbraio 2016
Secondi pensieri - 251
zeulig
Amicizia – È – è più profondamente – muta. Sentita più
che detta. È una forma di compartecipazione. Ma anche un forma di solitudine,
senza il tomento della solitudine: il conforto più spesso del solitario.
Dialogo – È la forma della riflessione Del due in uno,
o uno in due. Si procede per domande, espresse o implicite. E in forma
destrutturante, scarnificante, il “levare” di Michelangelo, dello scultore, più
che per accumulo.
Dono - È il segno più certo della vivenza, la
propensione al dono. Dona chi ha, chi non ha-è non ha doni da fare.
Esicasmo – Una “idiorritmia «vera»”, lo dice
Barthes alla voce “Cristianesimo, Oriente”, delle lezioni – le prime date dal
semiologo al Collège d France a gennaio del 1977 - raccolte sotto il titolo
“Comment vivre ensemble”. Idiorritmia, cioè “proprio”, “privato”, e “regola”, la vita
solitaria regolata dei monaci. Vera nel senso che “il telos è di natura mistica: non un essere perfetto, ma «respirare»,
unirsi”.
Heidegger – Quello che è certo è che è un affabulatore, e
un inventore di gerghi. Un inventore di parole. Anche di linguaggi. Anche di
concetti? Questi restano vaghi, a ogni pur accanito approfondimento. L’unico certo è una certa visione della vita,
provinciale e anzi paesana, con accenti lirici, nazionalista “in senso buono” –
anche se “nazista” e imperialista (germanica). Nulla di speciale: Heidegger fu
un rivoluzionario conservatore nazionalista come molti altri, non solo Jünger e Schmitt, anche il Thomas
Mann delle “Considerazioni di un impolitico” e di “Fratello Hitler”. Solo che
lui era anche nazista: cioè razzista, anche se non biologico, e per questo
antisemita – non ce l’aveva solo con gli ebrei..
Il conio
verbale heideggeriano è più sul genere filosofico o su quello futurista? Questo
è da decidere – Heidegger futurista non è male.
Si
traducono e si pubblicano i “Quaderni neri” all’impronta solo in italiano - non
in francese, in inglese (uno se ne
annuncia fra tre mesi), in spagnolo. Perché gli heideggeriani sono numerosi in
Italia? Non più che in Francia, sicuramente, o negli Usa. Perché – dato che
l’interesse precipuo di questi quaderni, fino ad ora, è l’antisemitismo – in Italia
c’è più interesse per la questione ebraica? No: non degli ebrei italiani, che
sono pochi e non leggono, né di un antisemitismo italiano, che non c’è. Effetto
Iadicicco, probabilmente, la valorosa traduttrice, che in un anno e mezzo ha consentito
la pubblicazione di un migliaio di pagine, e un altro mezzo migliaio ce l’ha in
uscita. Ma anche di Donatella Di Cesare, che da vice-presidente della Fondazione
intitolata a Heidegger è diventata sua sradicatrice, con due libri e molti articoli. La filosofia al
potere?
Riso - Omero
rideva? Forse sì, in cuor suo. Di tutti quegli sbruffoni di cui gli toccava
poetare. Eccetto i pochi momenti in cui poteva renderli patetici e quasi umani.
Sarebbe un’ipotesi non da poco per gli studi. E per il riso.
Silenzio
–
È il collante del mutuo riconoscimento, se non del rispetto – può essere
collerico. Di ogni mondo, umano, animale, vegetale, minerale, e dei mondi tra
di loro.
È il segreto della comunione nella
lettura. O delle “corrispondenze” in rete, come nel film di Tornatore - entro
limiti anche di facebook: forme di intimità tacite, malgrado le tante parole
in libertà e le immagini di comodo.
Stupidità – È una difesa nel Tao: “Il saggio la
cui virtù è compiuta ama portare nel viso e nella sua presenza l’apparenza della
stupidità”. Ma allora offensiva, una strategia di attacco: una ritirata dal
mondo come una trappola. Per ingannare forze forse altrimenti soverchianti, ma
un’attitudine tra alterigia e disprezzo.
Verità – Si direbbe
indivisibile, un approccio mentale prima che etico. Rousseau invece distingue –
non è il solo, ma lui è il più argomentato, alla “Quarta passeggiata” delle
“Fantasticherie di un passeggiatore solitario”. Partendo dall’ovvio: “La verità
generale e astratta è il bene più prezioso: senza, l’uomo è cieco; essa è
l’occhio della ragione”. Ma. “La verità particolare e individuale non sempre è
un bene; talvolta è un male; spesso, una cosa indifferente”. E: “le “verità che
non hanno alcuna utilità né per l’istruzione né per la pratica, come potrebbero
essere mai considerate un bene dovuto, dal momento che non sono nemmeno un
bene?” Dunque: una verità “assolutamente priva d’utilità, anche potenziale, non
può essere cosa voluta; chi la tace o la trasforma non mente”.
Ciò è detto da uno che premette: “Non ho
nel cuore nessun altro sentimento che possa superare l’orrore per la falsità”. E:
“Giudico me stesso con tanta severità quanta forse il giudice supremo ne userà
verso di me”.
Sembra il paradosso di Epimenide
cretese, quello che asseriva: tutti i cretesi dicono il falso. Ma forse è un
misto di agudeza e di lassismo
morale. Rousseau era indulgente con se stesso, e il suo primo ricordo
importante è di una bugia che fece molto male. È anche il paradigma della
morale utilitaristica, che sembra essere l’sito di una fede protestante, di un
ordine divino disgiunto dall’umano, e personalizzato - io e il mio Dio. Le
deduzioni Rousseau attribuisce al temperamento, più che alla logica o alla
cogitazione: “Ho seguito l’indirizzo morale della mia coscienza più che le
astratte nozioni del vero e del falso”. Come sempre ponendosi al centro: “Non
ho fatto torto a nessuno e non mi sono attribuito più merito di quel che
avessi” - fino ad accusarsi di avere esagerato, nelle “Confessioni”, in bugie
ma a danno di se stesso: “Ho descritto i miei giovani anni senza vantarmi delle
belle qualità che dotavano il mio cuore”….
Rousseau parte dal proposito di sfidare
l’assunto comune che non si può “ingannare innocentemente”. E si risponde di sì:
“Dovunque la verità è indifferente, ugualmente è indifferente l’errore contrario”. Tacere la verità e dire
una bugia “sono due cose diversissime, dalle quali però può risultare lo stesso
effetto”, se è un effetto nullo. In questi casi “chi inganna dicendo il contrario
della verità non è più ingiusto di chi inganna tacendola: se si considerano le
verità inutili, l’errore non è peggiore dell’ignoranza”.
La verità Rousseau lega, quando la
analizza in astratto, alla giustizia: “La verità dovuta è quella che interessa
la giustizia”. Ma porta infine alla sua “passeggiata” l’esempio di Sofronia,
tratto dalla “Gerusalemme liberata”. Di una, cioè, che lodevolmente dice una
bugia, anche a costo della vita. Ma Sofronia si accusa di un furto che non ha
commesso per salvare Olindo - come non l’ha commesso Olindo, che pure si accusa:
entrambi si accusano per salvare altri innocenti, i cristiani di Gerusalemme.
Sofronia è in una situazione di giustizia ingiusta, da cui deve difendersi.
Rousseau (“odio le cattive massime più
delle cattive azioni”) si vuole soprattutto un artista – letterato, musico – e da
ultimo, nella stessa “Quarta Passeggiata”, il quesito risolve in poesia – apologhi,
favole, racconti, romanzi: “Mentire per proprio vantaggio è impostura; mentire
per l’altrui vantaggio è frode; mentire senza vantaggio né svantaggio, proprio
o altrui, non è mentire, non è menzogna, ma finzione”.Ma la poesia non è
comunque verità? O altrimenti, in ipotesi: la letteratura è proprio realmente
esente dalla morale, se è esente dalla verità?
zeulig@antiit.eu
Tutti contro tutti, l’America al quadrato - per ridere
La
parodia del filmaccio splatter. Ci
sono anche un’impiccagione dal vivo, e uno squartamento a colpi d’ascia, oltre
alle solite revolverate-deflagrazioni di teste e visceri: una overdose di immagini dette forti, molte
peraltro ripetitive, nessuna memorabile. Forse i volti esagerati. Ma si
annegano nel parlato, volutamente artefatto: elaborato, soprammesso.
Tarantino
si moltiplica, fa la parodia della parodia, del Tarantino stesso prima maniera,
splatter. E, volendo fare i cinefili, di Sergio Leone naturalmente, la musica di
Morricone aiutando. Della “Sporca dozzina” per l’ambientazione chiusa, cupa,
notturna, tutti maschi - c’è una donna, ma è peggio: Jennifer Jason Leigh è
solo una maschera di sangue rappreso, senza figura (fa senso rivederla lo
stesso giorno, su Sky in “Washington Square” vent’anni fa, una che da sola
regge l’immenso Henry James). Del giallo alla Christie, parlato-parlato. E
soprattutto, dopo Tarantino, di “Ombre rosse”, per la claustralità – lì tutto
si svolge dentro una diligenza, qui dentro una locanda, in un paesaggio
ghiacciato. Con molto Godard, forse inconscio, il parlato-parlato sommandosi
all’inquadratura fissa e al soggetto frontale. Geniale e faticoso.
Di Leone
la parodia è di “C’era una volta l’America”, coi desperados - messicani, neri, mulatti, bianchi fottuti - invece
delle borghesie urbane, drogate e mafiose. Ma non nostalgico, cattivo: un
“sogno americano” di tutti contro tutti, come si legge nelle cronache, che
tutti si sparano. Con una punta di razzismo. Lo stesso, sottile, di “Django
unchained”, l’altro western di
Tarantino un paio d’anni fa, il primo. Il film è diviso in episodi. L’ultimo,
intitolato “Uomo nero, inferno bianco”, vede tutti morti, ma del nero, il mastermind della carneficina, non si può
dire, non si vede spirare, né del suo succube bianco, un figlio di confederati
spregiatore dei neri – una fine diversa solo per consentire un sequel?martedì 16 febbraio 2016
Problemi di base - 265
spock
Pensare il niente non è negarlo?
Necessitas non habet
legem. Si può rubare per
necessità?
Si può uccidere per necessità?
E mentire (Kant)?
Rubare a un ladro è reato?
Tacere una verità non è mentire (Rousseau)?
E asserire il contrario della verità, senza danno
altrui (id.)?
“Chi dà una moneta falsa a un uomo a cui non deve
niente, indubiamente inganna quell’uomo ma non lo deruba” (id.)?
spock@antiit.eu
La politica estera di Angela Merkel
La no-fly zone sulla Siria settentrionale, alla frontiera con la
Turchia, richiesta da tempo dal presidente turco Erdogan, è infine patrocinata da
Angela Merkel. Potrebbe essere un vulnus non riparabile nei rapporti tra i governi Ue.
La no-fly zone ha lasciato finora perplesso anche lo Stato maggiore
Usa, il miglior alleato della Turchia. Perché oscura la frontiera turco-siriana
attraverso la quale passa di tutto, anche i terroristi dell’Is, nonché le armi
e i finanziamenti col traffico petrolifero. Ma la cancelliera ha deciso. Come
già per gli aiuti Ue alla Turchia, tre miliardi. Non poco, e senza vincoli né controlli
- per il bene dei rifugiati, si spera.
Merkel ha deciso all’improvviso,
senza concertazione europea, e da sola. Una decisione avventurosa, che rischia
di accendere una guerra globale. Una condotta unilaterale comunque della
politica estera e di difesa europea, con buona pace di Mogherini, e dello
stesso governo italiano, come sempre assente nelle questioni importanti, che preoccupa
molto la diplomazia e anche lo Stato maggiore italiano. La no-fly zone era richiesta da Erdogan per poter bombardare senza
controlli i curdi in Siria e in Iraq. E forse rifornire, con i suoi alleati
sauditi, l’Is.
Ci si interroga sul perché la
Germania avalli questa tattica. Forse per un calcolo politico della
cancelliera, per guadagnare qualche voto di turchi tedeschi alle prossime importanti
elezioni regionali. Ma non ci si interroga troppo: la diplomazia tedesca ha una
lunga e coerente tradizione di tracotanza e avventurismo. Ha creato il caso
Ucraina, con le finte rivoluzioni arancioni di vecchi marpioni - dopodiché, dopo aver bloccato le relazioni tra l’Europa e la Russia, traffica tranquillamente
con Putin. Dopo aver dissolto la Jugoslavia nelle pulizie etniche per farsi un
paio di Stati cuscinetto. Ora impone all’Europa
un regime liberticida, con le carceri traboccanti di intellettuali critici e
oppositori politici – le impone di finanziarlo e lo sostiene nel genocidio dei curdi.
Il ritorno del Neutro
La “pura
perdita” è la riserva spirituale, fino alla perdita di sé dei mistici. Un
catalogo e un’affermazione positiva. A partire da Meister Eckhart, Ossola
medita sulla “triste sorte di questa virtù”. Magistrale, un gioco demiurgico svolgendo
della parola e dell’analisi, fino a trovare la bonomia di Leopardi, la muta flaubertiana
Felicita, l’idiota di Dostoevskij in… don Giovanni. Ma persuasivo. Come un
ritrarsi da un mondo che non ci merita, al di sotto delle attese ma anche degli
obblighi.
Don
Giovanni è personaggio-tema su cui Ossola centra la riflessione, insieme con gli
amati Hammarskjöld (“il viaggio più lungo\ è il viaggio verso l’interno”), del
cui diario è stato il curatore nell’ultima edizione francese, e Foucauld, dei
cui “Deserti”, un estratto del dizionario tuareg-francese, Ossola è l’editore,
sempre in francese. Con letture golose dal “Neutro” di Barthes. Nel mezzo, le
lettere “morte”, o “corrispondenza negata”: le lettere non spedite che si sono
accumulate negli anni al manicomio di Volterra. Un florilegio di molta, umile,
sapienza, stilistica e morale.
Una filatura
sottile, un ricamo. Attorno al “cuore semplice”, l’eroe assente. Un mesto addio
ai “beni del mondo”, anche. Non mesto, sorridente. Ma non sereno, un po’ di risentimento
c’è. Di rivalsa.
Il volumetto
ripercorre un corso tenuto al Collège de France dieci anni fa, sotto lo stesso
titolo, “In pura perdita: la rinuncia e il gratuito”. La cui idea era germinata
a Ginevra, dalla tesi di uno studente che, rileggendo le documentazioni
familiari, epistolari, notarili, narrative, etc., si era imbattuto in un’ultima
volontà del nonno impelagato in una causa in tribunale: “Un giorno di Natale
sono nato, a Pasqua morrò, ma le mie ragioni non finiscono”. Un assunto che poi
Ossola scopre suo proprio, dell’infanzia,
un legato materno. Rielaborato sulla tesi di Klaus Heinrich, lo storico delle
religioni, “Saggio sulla difficoltà di dire no”, 1964, e sul successivo, 1967,
“Parmenide e Giona”, sul rapporto tra filosofia e mitologia.
Un’acuta (per questo estranea al gusto italiano? si
pubblica, tradotta, in francese) riflessione su ciò che resta dell’io. Dal
ritiro nel “neutro” di Barthes (altra nozione rimasta estranea in Italia). Con
una doppia, implicita, valenza, non estranea allo stesso Barthes: della ritirata
nel Neutro come mossa tattica, tanto è pregnante.
Carlo
Ossola, En pure perte, Rivages, pp.
89 € 5,10
lunedì 15 febbraio 2016
Fisco, appalti, abusi (86)
Si è sparsa la fama che a Roma il prefetto
Tronca combatte Affittopoli. No, la pratica è, come sempre da trenta o quaranta
anni, agli inizi: al censimento degli stabili del Comune. Niente sfratti, niente
pignoramenti, niente disdette di contratti di favore. Si fa rumore per non
fare.
Il Policlinico dell’università La Sapienza rinvia
molti interventi chirurgici per carenza di graffette, ha la radioterapia fuori
uso e non è in condizione di ripararla, e così due tac su tre. È “il più grande
ospedale d’Italia, uno dei più grandi al mondo”, con code di attesa che ne
farebbero una miniera in mani appena decenti.
Seimila casali sono in vendita tra Firenze e
Siena lungo la Chiantigiana. Effetto delle tasse di Monti: i paesi e la
campagna si svuotano in Italia, per la prima volta dopo le invasioni dei barbari.
È invalso anche a Roma, dopo la Toscana, l’uso
di piazzare i controlli di velocità su strada a ridosso del segnale che riduce
la velocità e\o a ridosso del segnale stradale di indicazione del controllo
stesso. Eludendo in entrambi i casi la legge. Che nel secondo si configura in
modo preciso: “Le postazioni
di controllo sulla rete stradale per il rilevamento della velocità devono
essere preventivamente segnalate e ben visibili, ricorrendo all’impiego
di cartelli o di dispositivi di segnalazione luminosi”. Ma è inutile fare
ricorso al prefetto Gabrielli.
È inutile fare ricorso in genere al prefetto avverso gli atti
amministrativi discrezionali, per esempio le multe stradali. Il ricorso verrà
rigettato automaticamente, senza motivazione.
Chi ci protegge da Mafia Capitale
Villa Pamphili, la più grande e frequentata di
Roma, ha una ventina di strutture architettoniche fatiscenti per incuria. Una
di esse, in concessione, dopo due anni di procedure, per usi commerciali e
culturali, è stata chiusa subito dopo l’avviamento dai vigili. Per questo motivo:
le attività commerciali erano preponderanti su quelle culturali. Troppi caffè.
Nessuno ci crede, a questa motivazione, ma a
torto: la richiesta di mazzette si sa che a Roma è proibita. Da parte dei
vigili, poi.
Quello di Villa Pamphili è l’unico esercizio
commerciale chiuso dai vigili dacché ce n’è memoria. Con altri ci hanno tentato
ma la chiusura si è arenata nelle procedure. Bisogna felicitarsi con i vigili, nel
caso di Villa Pamphili, oppure le cooperative hanno più problemi nelle
procedure?
Nell’esercizio chiuso a Villa Pamphili le
cooperative affermano di avere speso 300 mila euro per riadattare il casale fatiscente.
Ma se anche ci avessero speso un decimo, un bel pungo in un occhio hanno
ricevuto. Per non dire delle famiglie con bambini. Consentivano pure di prendere
il caffè seduti in giardino senza pagare il supplemento “servizio”. Uno spreco,
un lusso, bisogna essere severi.La fede prima di Auschwitz
Opera
postuma, titolata anche “I doni della vita”. Una storia della Francia profonda,
come usava dirla in rapporto a Parigi, di continuità e odi familiari, attaccata
ai beni di questo mondo, anzi arcigna, attraverso le due guerre e tre
generazioni del Novecento. Col lieto fine ma con brutti presentimenti. È la
prova generale di “Suite francese”, alla quale Némirovsky lavorava
contemporaneamente, nel 1941-42, sfollata con la famiglia nella campagna
occupata dai tedeschi, che anch’essa avrebbe dovuto avere il lieto fine. Ma fu
interrotta dalla denuncia, anonima ma insistita, della scrittrice in quanto
ebrea alle autorità tedesche, che le costrinse a internarla, e quindi a
destinarla alla morte, a Auschwitz.
È
– più che in “Suite francese” – la caduta delle illusioni, di questa francese
d’adozione: sociali, nazionali (la borghesia indomabile ma feroce, la provincia chiusa e gretta), personali,
di mentalità e di caratteri. Vissute come si sa intimamente, oltre che gestite,
dalla scrittrice. La Francia, che era sempre stata un porto di elezione, e
nella provincia anche più che a Parigi, è qui luogo iperfrancese ma di piccinerie e
risentimenti. Fin nell’amore, il giorno stesso del matrimonio d’amore. Tra
obblighi insulsi, familiari, paesani, di classe, vezzi egoisti, cattivi,
ciechi, in orizzonti ristretti e ristrettissimi. Un’opera consapevole, dei
guasti della guerra in corso come di quelli della prima grande guerra. Irène
Némirosky è forse la scrittrice francese tra le due guerre che, dopo Céline,
ebbe più acuto il senso della catastrofe incombente.
È tuttavia
un’opera volutamente ottimistica. Per atto di fede, da neo francese, e anche da
neo catecumena. Interpolate sono qui pagine commoventi di fede cristiana, che
non può essere che sincera. I due titoli di lavorazione sono evangelici. Némirovsky,
battezzata in prossimità della tempesta antiebraica, è sospettata di
opportunismo, da una parte e dall’altra. E in qualche modo anche dalle due
figlie, che le sopravvissero protette dalle monache. Qui non professa, come
negli “Appunti” sparsi, il rifiuto di un “destino comunitario”, semplicemente
si proietta in un’altra cultura – apocalittica (i due titoli sono presi dal
vangelo di Giovanni) ma non senza speranza.
Scrittura
sentimentale si vuole la sua, ma è piuttosto secca, anche qui, alla Balzac. Una
Balzac si direbbe piuttosto dei sentimenti invece che delle cose, affari,
politica, istituzioni, relazioni e regole sociali. Dalle quali peraltro non
rifugge, con una conoscenza o sensibilità di prima mano – la sua non è una
scrittura “femminile” come opinano i suoi biografi Philipponnat e Lienhardt. Dà qui, e resta a tutt’oggi la sola, la triste verità
delle dinastie economiche, del capitalismo familiare: “Un patrimonio, per
sopravvivere di generazione in generazione, ha bisogno di essere continuamente alimentato
con denaro fresco, sostenuto da eredità…”.
Francesi o ebrei (le due categorie si distinguono), i suoi personaggi sono tratteggiati col distanziometro, e con occhio tanto critico quanto interessato, personalmente toccato. Senza intimità con i personaggi che crea – se non in “Suite francese”, presagio di morte. Di “compassione impietosa”, la disse Henri de Régnier, un ossimoro che la riassume bene: un miscuglio di ironia e partecipazione. Che lei stessa in qualche modo rivendicherà nella “Suite”, dicendosi di “spirito dickensiano” - balzacchiano sarebbe meglio.
Irène
Némirovsky, I beni di questo mondo,
Editori Internazionali Riuniti, remainders, pp. 234 € 7,50
Francesi o ebrei (le due categorie si distinguono), i suoi personaggi sono tratteggiati col distanziometro, e con occhio tanto critico quanto interessato, personalmente toccato. Senza intimità con i personaggi che crea – se non in “Suite francese”, presagio di morte. Di “compassione impietosa”, la disse Henri de Régnier, un ossimoro che la riassume bene: un miscuglio di ironia e partecipazione. Che lei stessa in qualche modo rivendicherà nella “Suite”, dicendosi di “spirito dickensiano” - balzacchiano sarebbe meglio.
domenica 14 febbraio 2016
Una Norimberga delle banche
Si vendono e si svendono le banche in
Borsa e non si sa perché. Mentre è noto a tutti che col bail-in bisogna assolutamente tenersene alla larga. È l’esito della
saggezza europea, cioè della Bundesbank tedesca – gli Usa, per dire, se ne
tengono alla larga, Londra pure. Ma la Banca centrale europea non è da meno,
che anzi attizza le svendite, con le sue non ambigue insinuazioni. Ci sarà una
Norimberga delle banche?
Non la migliore scienza bancaria, in
queste politiche, e anzi una selvaggia. Se non è da magliari. Perché venerdì si
è arrivati alla follia. La Deutsche Bank si è riacquistato un prestito
obbligazionario per poco meno di due miliardi emesso appena una mese prima. Che
aveva venduto caro, appena una settima prima di annunciare perdite colossali
già note nel bilancio 2015, per 6 miliardi e mezzo. Questa è la banca più solida
per la vigilanza Bce.
È (quasi) la fine de mondo, e quindi
non si può riderne. Ma cos’è questa economia di mercato, cos’è questa Europa,
questa Germania?
Perché le banche ci rovinano
Non solo Deutsche, tutte le maggiori banche del blocco franco-tedesco,
sono sovresposte in derivati e altre attività
a rischio. La leva finanziaria, documenta Antonella Oliveri sul “Sole 24 Ore”,
cioè il rapporto tra attivo, o impieghi, e il patrimonio è di ben 28 volte per
le banche del blocco: Deutsche, Commerzank, Société Générale e BnpParibas - per
le banche italiane e spagnole è molto più ridotto, poco più della metà. Basta
una perdita anche minima sui derivati, su un ammontare così colossale, per
bruciare tutto il capitale di queste banche.
La situazione è tanto più a rischio
perché la vigilanza della Bce è carente o pregiudiziale. Sono banche che
promuove a pieni voti, senza nesuna garanzia di solidità – nel mentre che interviene
con la scure su banchette italiane che
sono lo zero virgola dei colossi d cu parliamo.
Giornalismo inutile, controproducente
Cairo è invasa da inviati e agenti italiani,
ma la verità arriva solo sul “New York Times”, da un giornalista che si è fatto
spiegare la verità sull’assassinio, sotto tortura, di Giulio Regeni. Senza
speciali poteri o trucchi: interrogando le fonti egiziane, a partire da quelle
ufficiali.
Il fatto non è episodico. Non è il
primo caso in cui i giornali di opinione non italiani sanno dell’Italia più dei
giornali italiani – che spesso magari ne sanno molto di più ma tacciono o
distorcono. Segna un limite che è diventato grave. Per l’industria
giornalistica stessa, che non dà affidamento. E perché non c’è democrazia senza
informazione vera. Libera non vuole dire nulla, siamo tutti liberi oggi, di
finire male: l’informazione si vuole ragionata, intelligente. Magari anche
lavorata, un poco.
tologia.Giornalismo di Stato, ignorante
L’inglese maccheronico pervicace di Renzi
è il segno di una politica, oltre che di provincialismo: die fati esteri non
gliene frega nulla. A lui come a ogni altro politico. Anche quando parla di
Bruxelles o Berlino, Renzi parla all’Italia di cose italiane, di piccinerie di
solito. Italia. Continua in questa terza Repubblica il vezzo democristiano di
chiudere l’Italia nell’Italia, che è la vera debolezza dell’Italia da ormai
settant’anni. Nella Ue e altrove. Di Renzi come di Mattarella, o di Boldrini.
Abbiamo Mattarella negli Usa e
Boldrini in Grecia non per altro, con un codazzo di giornalisti sui loro aerei
di Stato. Per guadagnarne la confidenza, e farsi portavoce dei pettegolezzi. Continua
la pratica vecchia Repubblica degli inviati al seguito dei potenti, ospiti di
riguardo. Un uso unicamente italiano,
scandaloso per ogni deontologia.
I potenti della Repubblica, i presidenti,
i presidenti del consiglio o delle Camere, qualche ministro influente, vanno
all’estero per farsi pubblicità gratis sui media, dalla Rai in giù. La loro
olitica estera si riduce all’uso di questa piccola corte per le loro beghe
politiche, personali, di corrente, di partito. I loro interlocutori all’estero
ormai lo sanno, che non si preparano nemmeno più agli incontri – servono per
una fotografia.Che successo, Cecchi antisemita
Bruno Pischedda, milanese, romanziere,
contemporaneista alla Statale, autore di
uno”Scrittori polemisti” che sta per diventare uno “Scrittori apocalittici”,
sul Novecento italiano (Morante, Pasolini, etc.), svolge un’indagine sul Novecento
razzista. Esamina romanzi, saggi, anche di ebrei (Lorenzo Mondo), giornali, viaggi,
convegni, carteggi, e azioni e reazioni di monsignori senza carità cristiana. E
ne fa perno la personalità e l’opera del fiorentino romano Cecchi. Ne fa il
filo conduttore della ricerca, ma anche implicitamente il padre o ispiratore
dell’antisemitismo nella letteratura prebellica, in quanto razzista, più o meno inconscio. Non si capisce su
quali basi. Forse per far digerire l’altrimenti indigesto malloppo, o magari per un succès de scandale. Il libro è andato subito esaurito, ma la tesi è piuttosto paradossale, dopo tanto lavoro d’indagine.
Nel senso che fa scadere l’antisemitismo nel tutto antisemitismo, che è la
negazione della cosa – la quale invece c’è stata e c’è, eccome.
Il sottotitolo è “Cecchi e la letteratura novecentesca a sfondo
razziale”. Partendo forse dal saggio estremamente elogiativo che Debenedetti dedicò
allo stesso Cecchi, l’autore dei “Pesci rossi” e di “Corse al trotto”, l’anglista
a lungo principe, prima di Praz, corrispondente del “Guardian”. Il giornalista
letterario principe. Di cui però l’illustre critico rilevava, nel 1952, o 1954,
più divertito che censorio, che spendeva ancora la parola “razza”, pur conoscendone l’uso deflagrante. Una pietra
d’inciampo illustre, ma troppo poco per dire Cecchi un razzista. Le prove a
carico sono la stroncatura di Guido da Verona, scrittore ebreo, sulla “Ronda”,
da parte di Bacchelli. Il caso “Americana”, l’antologia di Vittorini ripubblicata
nel 1940 con l’introduzione di Cecchi in sostituzione di quella dello scrittore
siciliano, censurata – ma Vittorini l’ha ripubblicata nel dopoguerra
giungendovi la prefazione di Cecchi, che ringraziava per aver consentito la
ripubblicazione del 1940. E il “caso Weininger”. Di cui Cecchi non ha colpa, ma
sì Boine, che recensendo di Weininger, esempio illustre dell’odio-di-sé
ebraico, “Sesso e carattere”, dice – ma parafrasando Weininger - la donna da
rispettare come “si rispettano le razze umane inferiori: gli ebrei ed i negri”.
Non è il solo
limite dello studio. Cecchi è un poveretto: un autodidatta. Intruso a Roma, da
giornalista furbo, nella migliore cultura. Reggendosi con monsignori, uno dei
quali dichiaratamente razzista, e altre cariatidi. Un cattolico bieco. E anzi reazionario.
Che non fu fascista ma voleva esserlo, e anzi lo fecero accademico d’Italia.
Nonché relatore, per conto di Bottai, al famigerato convegno di Weimar del 1942
– un guaio: c’erano anche Giaime Pintor e Pasolini. Una belva, con i guanti di
velluto. Una ricerca che, arrivati a questi punti, scade nel giornalismo a
sensazione – il giornalismo culturale purtroppo non sa fare altro.
L’esito è
infatti che, estremizzando, la “cosa” viene assunta per scontata, e i giornali
spendono per il libro grossi titoli. Cecchi è stato un razzista sul “Corriere
della sera” (di “un razzismo polimorfo, ingegnoso a seconda delle opportunità”), su “Repubblica”,
sul “Manifesto” (Un saggio che smaschera il terrore del meticciato e l’antisemitismo
di Emilio Cecchi, dietro la sua abile dissimulazione critico-letteraria”), un
po’ su tutti i media. Eccetto che sul “Sole 24 Ore”, di cui Pischedda è collaboratore,
che l’ha dato da recensire a Piero Craveri. Il quale ne scrive oggi allibito: come, Cecchi antisemita?
In effetti, si
legge l’excursus con fastidio. Il metodo è insinuante, volendo fare di episodi
limitati di antisemitismo letterario un caso. Cecchi diventa uno che si vuole
crociano per motivi di potere. E nel
1925 firma incautamente il manifesto di Croce contro il fascismo dopo il
delitto Matteotti e la sospensione dello Statuto. Sottinteso: era fascistissimo.
Mentre non poté avere i riconoscimenti di cui aveva bisogno perché non iscritto
al fascio – fu infine accademico perché lo volle Pirandello. E di Lorenzo Mondo le successive generazioni, eccetto
l’ultimissima, hanno avuto modo di apprezzare la dirittura intellettuale. Tanto
rumore per nulla? L’antisemitismo è materia delicata, per risolverlo a
randellate. .
Bruno Pischedda,
L’idioma molesto, Aragno, pp. 314 €
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