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Adorno
–
È il solo superstite della ditta con Horckheimer, che resse la Scuola di
Francoforte e produsse la “Dialettica dell’illuminismo”. I cinquant’anni della traduzione
della “Dialettica” sono passati inosservati – così come i settant’anni: la “Dialettica
uscì a Amsterdam nel 1944, e rivista nel 1947. Ma recupera a ampie falcate il discredito che
si era abbattuto sulla Scuola, a opera della filosofia heideggeriana della “autenticità”
o del “profondismo”, e sua personale per il rifiuto del Sessantotto, di cui si
può dire vittima. Era pazzo d’Ira von Fürstenberg, e invece gli mostravano per
spregio, le ragazze all’università, tette grinzose. E non ha retto.
Adorno suona bene in italiano. In
qualche regione è un uccello, nello Stretto di Messina è il falco pecchiaiolo.
“Freddy” ha avuto il dono dell’amicizia, che è generosità, pensava per gli
altri, le mezze calzette sociologhe dell’Istituto, compartecipava le sue idee,
approfondiva le loro, geniale e infantile, e ha salvato Benjamin. Dalla
povertà, dalla facile disperazione, e soprattutto dall’inesistenza. Fino a un
certo punto – ha passato sei settimane a Lourdes, Walter Benjamin, inutilmente,
prima di morire. Disgustava i compagni perché senza ipocrisia, era marxista e
anticomunista. Lo dissero per disprezzarlo spia e omosessuale, amante per
questo delle donne alte e robuste, e non per essere piccolo e tondo. Gli preferirono
il religioso Horkheimer, anche per l’eleganza, racée nel cristiano
contro quella dell’ebreo, ovviamente atteggiata, e il liberale Habermas. Aveva
una moglie, Greta, che era Felicitas per Benjamin e gli amici. E questo è un
danno, si prendono brutte abitudini.
I
tedeschi non perdoneranno agli ebrei l’Olocausto, ha ragione chi lo dice. E
hanno fatto schiattare Adorno , che ebreo non era ma loro volevano che fosse - aveva un padre ebreo, forse, non proprio.
Il filosofo rotondetto cui piacevano le donne giunoniche – dopo Kracauer e
altri amichetti di gioventù, pure lui – e dell’arte ha trovato che “la
normatività consiste nel sorpassare la normatività”. Adorno era Paolina, l’alta
e formosa amante genovese di Anton van Dyck, che per il vestito del ritratto
spese più che per un palazzo. Adorno era la madre, col cui nome il filosofo,
secondo i forti contestatori, la rivoluzione in Germania si vuole irriverente,
ha tentato di camuffarsi sotto Hitler. Mentre questo non è vero, semplicemente.
Ma è vero che a Hitler ha retto, alle tette esibite no.
Non
amava il jazz, e questo lo limita, era il tipo ottocentesco residuale che
ancora s’interpella, s’interpellava, N.H., Nobil Huomo, ma ha ragione, la
civiltà borghese non c’è, non c’è stata e non c’è più, ha passato la mano alla
cultura di massa. E amava la bellezza: fu felice a Lucca, tornò a Venezia prima
di morire.
Gli si rimprovera pure la superbia, questa in un certo senso a ragione. Adorno, con
Horkheimer e Mannheim, ha animato l’Arbeitersakademie di Münster e poi di
Francoforte. La Scuola di Francoforte era di lavoratori, all’opposto delle
Volkshochschule di Partito, benché in ditta con Arthur Rosenberg e Sombart,
personaggi inquietanti. Una scuola per lavoratori conservatori,
teutoni integrali, high tories, di snobismo imbattibile qual è al fondo del marxismo. È lì il
focolaio dei NN. HH., i borghesi proustiani, thomasmanniani. Ma ne sapevano di
più: meglio ha indagato Adorno il totalitarismo, meglio di Arendt, nelle radici
che stanno nel cuore. Il potere è nel cuore degli uomini: l’imprinting, l’istinto, l’abitudine. Non
nelle aquile di fureria, neanche nei tipi topini. Ma non sono ammesse più
aristocrazie, neppure dello spirito, le avanguardie anzi vanno abbattute per
prime, prima dei padroni, la democrazia si vuole intollerante.
Lui
questo lo sapeva. E un filosofo non può barare: il terrore è nato ad Atene, con la
democrazia. Platone la critica perché l’ha sperimentata: è la democrazia che ha
messo a morte Socrate. Anche Aristotele sta in guardia, avendone scoperto la
natura di governo dei nullatenenti, “quale che fosse il loro numero”.
Deismo
–
Ritorna diffuso, il “Dio orologiaio” di Voltaire anche il “Dio non gioca a dadi” di Einstein.
Di Dio come trickster della complessità, poiché non troppo ragionevole – confusionario
e anche dannoso (il “problema del male”). Non è il teismo dei teologi, pur
essendo l’antitesi dell’ateismo – né quello di Omero, “che tutto quel che accadeva nella pianura
davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni
tramate nell’Olimpo” (K.Popper, “Congetture e confutazioni”).
È una vecchia categoria, Settecento, che
torna in circolo. Allora come oggi alternativa, a una fede. Allora in chiave ascendente,
acquisitiva, oggi - al tempo della crisi – di ripiego, consolatoria. Non
fideistica: il suo fondamento è che non si può dimostrare l’esistenza di Dio e
non se ne può dimostrare la non-esistenza. È l’esito di chi riconosce una “religione naturale” e vi s’identifica, non ritenendo risolto scientificamente,
razionalmente, il mistero della vita.
Il vecchio deismo aveva argomentazioni
più agevoli perché il mondo era privo del darwinismo. Il nuovo ne tiene conto,
così come i vecchi deisti tenevano conto della fisica di Galileo e Newton, ma
non se ne soddisfa.
Il vecchio deismo si basava sulle “prove”
a posteriori, o degli effetti. Che
Kant ha sistematizzato nelle due categorie delle prove cosmologiche e le prove
fisico-teologiche. Le prime partono dalle limitazioni del mondo – contingente,
condizionato, e quindi dipendente – per risalire a un principio necessario,
incondizionato e assoluto. Le prove fisico-teologiche trovano Dio nella
bellezza e l’ordine , tutto sommato, del mondo: un creatore artigiano, abbastanza
intelligente e abbastanza benevolo. Anche se l’“abbastanza” implicherebbe un
ordine superiore.
Le prime si inscrivono nell’esigenza della
causalità, nella necessità logica di bloccare la regressione all’infinito. Le seconde
sfruttano l a razionalità della finalità: la necessità di raccordare i fenomeni
a un disegno, oggi si direbbe, intelligente. Entrambe le prove promanano dal
principio o esigenza della ragione sufficiente: di spiegare ciò che esiste e
come esiste, necessariamente. Il deismo si rifaceva nel Settecento – come del
resto oggi, nel revival – alle
“prove” fisico-teologiche. Allora non c’era la selezione-evoluzione, ma allora
come oggi l’inspiegato Big Bang resta per il deista una sorta di “prova”, pur
nello scetticismo o voglia d’incredulità.
Diderot, “Suite de l’apologie de l’abbé
de Prades”, ne dà una definizione restrittiva: “Il teista è quello che è già
convinto dell’esistenza di Dio, della realtà del bene e del male morale, dell’immortalità
del’anima, delle pene e delle ricompense avvenire, ma che attende per ammettere
la Rivelazione che gliela si dimostri. Il deista al contrario, d’accordo col
teista soltanto sull’esistenza di Dio e la realtà del bene e del male
morale, nega la Rivelazione e dubita
dell’immortalità dell’anima e delle pene e ricompense avvenire”.
Empietà – È tornata in auge, ma fuori
dell’Europa, del cristianesimo. Tra le diverse confessioni ebraiche e, di più,
tra quelle mussulmane. Anche il cristiano è empio in Asia. Per il cristiano
invece, anche per quello che non è impegnato - o non ci crede - nel dialogo
delle fedi, l’empietà non ha più corso. Non per convinzione, non c’è ripudio
formale del concetto di empietà. Ma per prudenza, tanti delitti essendo stati
commessi per delitto di empietà – come di eresia. Dal punto di vista etico e religioso
la categoria resiste ma senza effetti pratici. Non si vuole essere relativisti,
ma si è.
Un passo avanti
però c’è, su due secoli fa. Ancora al tempo della sua prima maturità, 1746, Diderot
sentiva “gridare da tutte le parti all’empietà: il cristiano è empio in Asia,
il mussulmano in Europa, il papista a Londra, il calvinista a Parigi…”. Al
punto da doversi chiedere: “Che cos’è dunque un empio? Tutti lo sono, o altrimenti
nessuno”. Empio è chi è fuori della tribù?
Esoterismo – La squalifica
è recente – e ancora: R. Barthes si interrogava sui segni delle stelle, anche
se Adorno li aveva già sradicati. Ancora
nel primo Novecento i positivisti facevano spiritismo. Cartesio, il razionalista per eccellenza, andò
in Germania in cerca dei Rosacroce. San Tommaso peraltro non escludeva un qualche
potere degli stregoni.
Francoforte
–
La Scuola di Francoforte, in realtà, più che chiudersi negli snobismi,
anti-massa, anti-profondismi, anti-dinsiformacija, aprì l’università nuova, appena
creata (1914), e la stessa filosofia alla quotidianità, all’indagine dell’ananke. Ne ampliò l’oggetto, i perimetri,
i punti di osservazione e gli esiti. Non in esclusiva, era l’aria del tempo: un’applicazione
della fenomenologia, ma in modo brillante, e anche a ogni oggetto. Unificare la
vita e il pensiero, fino ad allora ben separati, non è evento da poco. La
distinzione soprattutto abbattendo tra l’alto e il basso, tra ciò che è
rilevante – il pensiero – e ciò che non lo è – la tecnica, il modo di vita, il modo
di essere. Non per semplificare e ridurre ma per allargare
l’area della verità.
Linguaggio – Può parlare sia delle cose scomparse
che di quelle inesistenti, come diceva Abelardo – “nulla rosa est”. Ma con un senso (grammaticale, logico). A opera di
un parlante-pensante.
Purezza
–
È risorta come odio. Nel leghismo e nel neo germanesimo – nell’etnicismo - ma
non solo. Fomite di passioni per lo più lutulente, di abominio e sterminio. La legittima
difesa dei valori propri travalica nell’esclusiva, dell’io e il mio Dio.
È un revival del Cinquecento, della sangre limpia? È all’origine del razzismo, che nasce nel 1492 in Spagna, dopo la
conversione imposta agli ebrei: non contando più la professione religiosa, per
distinguere gli ebrei si compilarono Libri Verdi sulla limpieza de sangre
– della quale Ignazio
di Loyola fu oppositore lucido, tanto più per essere isolato.
Relativismo – Si rifiuta
nel mentre che si pratica, per un ossequio dovuto, o un dovere alla totalità. Relativamente:
in certe culture cioè e non in tutta la contemporaneità – alcune culture anzi
sono oggi più radicali ed esclusive che mai, perfino razziste. E più nelle
culture dell’Occidente, che per questo è sempre meno concreto e più
inafferrabile, che si vogliono per programma allocentriche. Il che è impossibile,
implicando la dissoluzione del soggetto.
È l’aggiornamento della tolleranza,
altro concetto dell’Occidente. Che rimane labile e inafferrabile in una col
declino politico e culturale dell’Occidente stesso – più politico (potere) che
culturale. I valori sono di cultura o civiltà.
Tribù – È l’antidoto
alla razza: la tribù nei fatti smantella la razza. È
il fatto tribale religioso che tormenta l’Irlanda, non quello etnico.
Ottantacinque musicisti in quindici generazioni di Bach non è un fatto di razza
teutonica, non c’è un Dna nazionale della musica, ma di ascendenze familiari. O
i Melani di Pistoia, sette musicisti su nove fratelli, dal maggiore Jacopo,
autore della “Tancia”, la prima opera buffa, al minore Alessandro, che musicò
il primo don Giovanni, l’”Empio pentito”. O i sette Scarlatti, sorelle,
fratelli, figli e nipoti di Alessandro. Storicamente si può sostenere che il
razzismo nasce quando si conculca il tribalismo.
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