Un libro di fotografie,
patrocinato dall’Aned, l’Associazione nazionale ex deportati, per i settant’anni della Liberazione. Da parte di
una figlia e nipote di deportate, i quanto antifasciste, poi sopravvissute.
Membro dell’A ned, e del Comitato Internazionale di Ravensbrüuck, Laurenzi dà
una testimonianza fotografica dei luoghi come sono oggi, con didascalie di
memorialisti e contemporanei. Con quattro o cinque altri interventi, di maniera
- di condanna. Ma il volume s’impone per le immagini, e queste sono forse un po’
malinconico, ma di lindura. Mentre un lager
è un luogo orrendo. Non solo concettualmente, anche fisicamente.
Ravenbrück, il
lager delle donne, è stata una struttura sordida, benché in terra tedesca – a
differenza dell’altro grande campo di deportati politici in terra tedesca, Dachau,
dove pure si moriva ma senza tormenti. C’era una fabbrica della Siemens, per
sfruttare le deportate a costo zero, quasi. C’era la Scheisskolonne, la colonna o squadra della merda, che rimestava per
ricavarne concime. C’erano gli esperimenti in corpore, con amputazioni e sieri
letali. E c’era, è vero, molta umanità. Di chi ci è rimasto ma in qualche modo
ne ha scritto, e di chi è riuscito a raccontarla. Lidia Beccaria Rolfi per
prima, una ragazza staffetta partigiana che sopravisse al lager e nel 1978
trovò la forza di raccontarlo, con l’aiuto di Anna Maria Bruzzone. Alcune
deportate, soprattutto le francesi, ci scherzano sopra. Germaine Tillon ci ha
scritto sopra un dramma, su pezzetti di carte che riusciva a raccogliere nella
spazatura, diosnendo di una matita, Der ver.., che le deportate recitarono. C’era
nei regolamenti del lager di evitare di sedersi sulla tazza, bisognava farla in
piedi – ma anche stando con i piedi sulla tazza si poteva
essere puniti, le SS punivano chi volevano. Ravensbrück non era propriamente un
campo di sterminio, ma la madre di Helga Schneider, volontaria SS, vi era
impegnata con le cavie umane degli esperimenti disumani sui sulfamidici e la
sterilizzazione: si sceglievano le donne giovani e ancora in forze, che
venivano infettate o mutilate a vivo, e poi lasciate morire tra i dolori.
Le immagini sono
una sorpresa anche per chi ha conosciuto i luoghi. Che sono ameni, ma sono pure
inquietanti. La pubblicazione segue purtroppo il vezzo della Repubblica
Federale, che, a differenza della polonia, che tiene Auschwitz com’era, col filo
spinato, la ruggine e lo squallore, ingentilisce i lager come monumenti da visitare, con aiuole e fiori, Dachau come
Ravensbrück. Non una buona politica.
Così Astolfo ricorda Ravenbrück
nel romanzo “La gioia del giorno”, 2008, ancora in edizione:
“Ravensbrück
fu lager gentile, sulle sabbie e
sotto i pini del Meclemburgo, alla luce perlacea del Baltico, tra le dune sotto
il lago di Fürstenberg, a un’ora da Berlino, a due da Lubecca, altro nome
fatale, ci passerà l’autostrada da Amburgo. Ospitò Geneviève, Milena, Gretchen,
Germaine, Charlotte, Douce Giroud, staffetta della Resistenza, lei che aveva
sposato un cagoulard, milite volontario di Vichy, Lidia, Gertrud
Luckner, le politiche Teresa Noce naturalmente, “rivoluzionaria
professionale”, Hélène Langevin, Marie-Claude Vaillant Couturier, e altre donne di qualità. Valchirie
ventenni vi si esercitavano a uccidere le eroine, dopo averle debilitate. Ma
pochi al confronto, dei ventimila che transitarono nell’attiguo campo per
maschi, poche diecine, si salvarono. Si uccideva col cianuro dello Zyklone B,
coi gas di scarico dei motori, le iniezioni di cloroformio al cuore, il veleno
nella zuppa, i sonniferi, i lanciafiamme, il mitra, pistole, di grosso e piccolo
calibro, bracieri ardenti, bombe al fosforo, bastoni, cani, l’obbligo di stare
in piedi, in camicia, al freddo, senza cibo. Centodiecimila donne vi sono
passate, cinquantamila non ne sono uscite.
“Questo
era un lager per bene, e fino
all’estate del 1944 le famiglie furono avvisate dei decessi, tutti per
incontestabile arresto cardiaco. Le detenute della Scheisskolonne, la
squadra della merda, pestavano gli escrementi coi piedi, quindi li appallottolavano
con le ceneri per ottenerne un concime. I neonati s’immergevano in secchi
d’acqua, dove morivano in dieci-quindici minuti. Qualche neonato sopravvisse,
chiuso negli stracci, una o due settimane. Fu qui che il dottor Gebhardt
diventò professore, facendosi nominare da Hitler poche ore prima della fine capo
della Croce Rossa, con la vivisezione di settantacinque ragazze polacche. Il
dottore induceva la cancrena nelle cavie umane per dimostrare che Heydrich, che
presto peraltro morirà colpito dalla Resistenza ceca, non avrebbe potuto evitarla
dopo l’attentato. Assassinare per la scienza era primario impegno del nazismo:
l’orario delle esecuzioni nelle ventuno carceri a esse adibite fu programmato
d’ordine di Hitler sulle esigenze degli istituti di ricerca.
“Nel 1940 la Gestapo ci teneva
cinquemila prigioniere: politiche, ebree, testimoni di Geova, zingare,
criminali. Nel 1945, approssimandosi la sconfitta, le prigioniere erano
quarantaseimila, comprese le soldatesse russe, stipate in trentadue baracche,
più settemila uomini nel campo attiguo. Lavoravano per la Siemens, a ciclo
continuo, su turni di dodici ore, le più fortunate. Erano donne in massima parte
inesperte della vita politica o criminale: la disgrazia introiettavano,
consumando rapidamente le difese dell’amor proprio, e intristivano nell’animosità
verso chi stava loro più vicino, le altre compagne di sciagura, prima della
rapida fine. Le criminali che nel 1942 furono trasferite a Auschwitz fecero invece
le migliori kapos del campo di sterminio, “per resistenza, bassezza,
trivialità e depravazione”, a giudizio di Höss, il comandante. Meglio
rispondevano le prigioniere politiche, cui l’internamento, manifestazione di
timore da parte del nemico, rafforzava con l’orgoglio la resistenza fisica.
“I russi liberarono Ravensbrück a
fine aprile 1945, gli americani subentrarono dopo qualche settimana. Il campo
ha stimolato molta creatività, dirà Denise Mac Adam. Ma è stato il luogo più
persistente dell’irrealtà, le deportate non potevano parlarne, non c’era
neppure sulla carta. A lungo fu ignorato pure dalla memoria ebraica. Per molti era
millantato credito. E per le donne un disonore. Lidia
Beccarla Rolfi non ricorda di avervi mai visto la luna, è sempre inverno nei lager, nebbioso, grigio. Ma il lago è
minuscolo, e da Fürstenberg le mura si vedevano, le colonne di lavoro cinque
per cinque, il fumo del forno crematorio a ciclo continuo, e si potevano anzi udire
le urla delle kapò, le scudisciate. Molti del resto ci lavoravano,
venendo in bicicletta o in barca dal paesino ordinato col campanile a guglia.
La Croce Rossa entrava. E quando la guerra fu perduta Siemens pagò le
deportate, alcune, quelle dei registri.
“Le internate che non erano buone
per la fabbrica, e non erano in castigo nella Scheisskolonne, spalavano sabbia, in cerchio, da sinistra
a destra, ognuna spalava il mucchio della vicina. Le segretarie, le dottoresse,
le infermiere nascondevano a volte le prescelte per la liquidazione. Questo
avveniva a danno di altre internate, i totali dovevano quadrare. Ma l’umanità
soverchiava le teste di morto. Geneviève de Gaulle, una bella ragazza arrestata
con le amiche al caffè a vent’anni, vi sopravvisse con le preghiere e l’amore
per la Madonna. Germaine Tillion, che vi perse la madre, la scrittrice Émilie,
uccisa col gas alla vigilia della liberazione, per essere stata denunciata da
un abate collaborazionista, ne fece la parodia offenbachiana in “Il Verfügbahr agli Inferi”, ai margini di
un’“Imitazione di Cristo” regalatagli dal cappellano, e su ritagli di carta recuperati
dalla rete interna di resistenza, scrivendo dentro un cassone nelle lunghe
operazioni di carico e scarico dei treni, protetta dalla squadra di lavoro. Il Verfügbahr,
detenuto disponibile ai lavori esterni, è nel caso femmina, Nénette, e cerca un
campo “con tutti i comfort, acqua, luce, gas, gas soprattutto”. È forte
Germaine, allieva di Mauss e Massignon, che a Yacef Saadi e tutto l’Fln imporrà
nel 1957 a
Algeri il blocco degli attentati contro i civili, e tradita dai generali
francesi si rifarà con de Gaulle, dal quale otterrà il perdono dei terroristi
algerini, e ora dell’Oas.
“Margarete Buber Neumann era stata
isolata dalle politiche per il suo comunismo. Dapprima dalle stesse internate
comuniste, le quali la dichiararono traditrice per il motivo che diffondeva
menzogne sulla Siberia, e di conseguenza da tutte le politiche, per
l’ascendente che le comuniste avevano sulle altre. Eccetto che da Milena.
Milena di Praga: così Milena Jesenskà le si presentò, giornalista, comunista,
destinataria di tante lettere di Kafka, fra le più fantasiose lettere d’amore
passate agli archivi. Milena chiese a Grete se era vero che i sovietici avevano
consegnato a Hitler gli antinazisti rifugiati a Mosca, e le due donne divennero
amiche. Per Milena Grete era una Madonnina di campagna, che ama la vita per
trasporto naturale. Per Grete Milena era la tenerezza femminile unita a
un’energia tipicamente mascolina. Milena,
appena uscita dal liceo femminile Minerva a Praga, sedeva intrepida al caffè
Arco, ritrovo dei letterati germanizzanti, baffuti, gnoccoloni, e presto se ne fuggirà
sola a Vienna. Non femminile, il cappello portava da uomo, ma presto si
sposerà. Grete e Milena progettavano a
guerra finita un libro, “L’era dei campi di concentramento”, di Stalin e di
Hitler. Ma Milena, il fuoco vivo di Kafka, morì prima.
Ambra Laurenzi, Ravensbrück, il lager delle donne,
Punto Marte, ill., pp. 120 € 26