Bombardamenti
–
Quelli a tappeto, quotidiani, senza distinzione di obiettivi, che hanno segnato
la seconda guerra, sono campo praticamente inesplorato in Italia e in Giappone.
Sarebbero pretesto fertile di narrazioni e immagini, ma sono ignorati. Una
trascuratezza che va molto, troppo, al di là della disattenzione. Si direbbe
per un senso di colpa introietttato, avallato senza riserve in Italia e in Giappone.
Ma, allora, non in Germania, malgrado le dichiarazioni pubbliche?
In Germania i bombardamenti sono
materia di molte rricerche storiche e narrazioni.
Egemonia
–
Una categoria politica di cui discute molto la Germania. Non nel senso di Gramsci
– peraltro del tutto trascurato nel dibattito – ma in quello strettamente
politico, o del dominio, su cui si imperniava la categoria invece dismessa
dell’imperialismo.
L’egemonia di Gramsci è
“culturale”, nel senso del’autocoscienza del proprio essere sociale e delle
potenzialità. Del dominio, se si vuole. Gramsci si muoveva nel solco di Lenin,
che in più punti ne prospetta l’esigenza – “la rinunzia all’idea di
egemonia è l’aspetto più grossolano del riformismo nella socialdemocrazia russa”, “dal punto di vista del marxismo una classe che neghi l’idea
dell’egemonia o che non la comprenda non è, o non è ancora, una classe, ma una
corporazione o una somma di diverse corporazioni”, “è proprio la coscienza dell’idea di egemonia, è propria la sua incarnazione
concreta a trasformare, attraverso la sua attività, una somma di corporazioni in
classe”. Ma di un dominio inteso come esito di una superiorità di
progetto e di scopo.
In Germania se ne discute fra i
politologi, a sinistra come a destra, come “potenza”, la potenza della Germania. Gian Enrico Rusconi ne dà
una parziale rassegna in “Egemonia vulnerabile”. Con limiti: “vulnerabile”, “riluttante”,
“controvoglia”. Ma anche “naturale”, “satura” (?), “della responsabilità”, e
“di centro”, o “al centro”, quasi un fato morfologico, un po’ geografico un po’
storico. Dando per scontata l’egemonia economica, e col sottinteso di
monetizzarla ora politicamente.
Un disegno a ogni evidenza imperialistico.
Seppure giocato sulla cosiddetta “etica della responsabilità” - questo
significa il “controvoglia”. Facendo cioè quasi un obbligo morale alla Germania
di “uscire allo scoperto”: di assumersi l’egemonia come un onere, uscendo dalla
comoda equivoca posizione che avrebbe sempre avuto nella Unione Europea di
“leading from behind”.
L’egemonia è vecchio tema nazional-consevatore.
Di Heinrich Triepel, dimenticato autore di un’opera
già famosa, “Die Hegemonie. Ein Buch von führenden Staaten”, del ferale 1938. Di Ludwig Dehio, “Equilibrio
ed egemonia”, 1954. Ma è ora anche della sinistra estrema, quale è il caso di
Wolfgang Streeck, “L’egemonia tedesca che la Germania non vuole”, con la
bizzarra ipotesi di un’egemonia imposta a una potenza riluttante. Che Christoph
Schönberger aveva appena teorizzato da destra, “Hegemon weder Willen”,
controvoglia.
Il fulcro del ragionamento di Triepel, che Schönberger illustra, è
la funzione naturale di guida devoluta allo Stato più potente all’interno di
una federazione. Naturale, cioè imposta dai fatti. Ciò non è avvenuto per lo
Stato federale più longevo e meglio funzionante al mondo, gli Usa. Ma il caso
non è nemmeno citato. Ciò non avviene paradossalmente neanche nella Germania
Federale, che ormai ha una storia di oltre sessant’anni, quasi più lunga del
Reich prussiano, nella quale ha affrontato decisioni difficili, come la
riunificazione e la stessa Ue, senza il bisogno di un’egemonia al suo interno.
Amburgo e Berlino odiano e disprezzano la Baviera, il profondo Sud, cattolico
per di più, che è lo Stato più innovativo e più ricco della Germania e
dell’Europa, ma è tutto, non si va oltre il leghismo, non ci sono precettori in
questa Germania. Anche il “caso tedesco” è singolarmente ignorato. L’urgenza
è solo imperialista.
Francesco - Un papa kantiano.”Se si introduce
nelle questioni di fede un senso morale (come io ho cercato di fare nella
“Religione entro i limiti della sola ragione”), il credente non avrebbe in sé
una fede vuota di conseguenze, ma una fede comprensibile e in rapporto con la
nostra vocazione morale” (I.Kant, “Il conflitto delle facoltà”, tra filosofia e
teologia). Nel suo ansioso inseguimento del secolo, delle novità dell’ultima
ora, tanto più se di nemici della chiesa e della fede, Kant è un ancoraggio
solido per il papa. Per un’etica (così anche per la fede?) da conquistare in continuuum, vigilando, integrando,
mutando, mai dandola per scontata o fissata, magari una volta per tutte. E per una
conquista anche personale, non imposta dall’esterno – non soltanto imposta
dall’esterno.
Islam - I jihadisti , nei paesi arabi, hanno in prevalenza
formazione universitaria. Una ricerca americana, “Engineering of Jihad”, una
denominazione che gioca sull’ambivalenza ingegneria-avviamento, li vuole al 69
per cento di formazione universitaria, e per il 44,9 per cento di questo 69
ingegneri. Questo nei paesi arabi. In Inghilterra e in Francia sono invece
giovani per lo più renitenti alla scuola, a giudicare dai tanti protagonisti di
attentati di cui si sono ricostruite le biografie .
Notevole è l’islamismo
femminile, che invece non si sottolinea. Già nelle grandi masse e
manifestazione di piazza pro Khomeini. Molte le madri che hanno “formato”
i jihadisti, e le jihadiste, specie in Europa, anche se poi pentite o critiche.
A volte è un islamismo modaiolo, con veli vezzosi, come si ama sottolineare
nelle cronache ora dall’Iran, e perfino dall’Arabia Saudita – dove le uniche
due o tre donne a volto scoperto del reame, peraltro esibito solo a Londra, o a
Ginevra, fanno testo. Tuttavia, è indubbio che il motore del ritorno all’islam
più tradizionale è proprio femminile, in famiglia e in piazza.
La
Germania è la prima terra d’immigrazione di islamici, e di ebrei – ce ne sono
stati anche di “ritornati”, quelli fuggiti in tempo o sopravvissuti a Hitler. È
il paese europeo che ha più immigrati islamici, o quasi, poco sotto la Francia,
che ne ha sei milioni. Ha il doppio egli immigrati islamici della Gran
Bretagna, quattro volte quelli dell’Italia. Del resto, è sempre il Paese che ha
avuto la maggiore immigrazione del dopoguerra, dapprima dal Sud Europa, poi dalla
Jugoslavia e la Turchia, ora dal Medio Oriente, fino all’Iran, e dal Nord Africa.
Di lavoratori, ma con diritto al ricongiungimento familiare agevolato. Quindi è
terra d’asilo. Con l’immigrazione islamica in massa ha maturato però una
rilevante avversione.
Legge – È spesso arbitrio. “La legge è qualcosa di sordo
e inesorabile”, si sa, almeno da quando famosamente ne scrisse Tito Livio,
40-41. Ma, si direbbe, con limiti, che sono quelli della stessa legge nel suo
significato proprio, come atto di legge. L’altro suo significato, figurato, di apparato
repressivo, polizie e giudicatura, è invece slegato da vincoli: è puro arbitrio.
Due
cause di lavoro lo ricordano, entrambe allo stesso Tribunale, a Roma, contro lo
stesso soggetto, la Rai, che hanno avuto la scorsa settimana due sentenze
diametralmente opposte, e in contrasto coi presupposti. Lamberto Sposini, colpito
da ictus nello studio Rai dove si apprestava a condurre “La vita in diretta”
cinque anni fa, ora in difficoltà per pagarsi le spese mediche e la
riabilitazione, aveva citato la Rai per il ritardo nei soccorsi, un paio d’ore,
che hanno reso devastante l’emorragia cerebrale. Il giudice gli ha dato torto.
Ha invece dato ragione – non lo stesso giudice ma lo stesso Tribunale, la stesa
sezione di Tribunale – a una giornalista Rai che ricorreva contro un “demansionamento”:
un risarcimento di un milione, e il riconoscimento di un’invalidità permanente
del 7 per cento, causata dalla sofferenza psicologica.
Manomorta – Era la
rendita dei poveri. In capo alla chiesa, ma a beneficio dei poveri e gli
ammalati. Lo ricorda Pasquale Villari nelle sue “Lettere meridionali” del 1862,
contro l’appropriazione della manomorta a Napoli - che fu il primo pensiero del
governo italiano: era con le rendite pie che si mantenevano i poveri e gli
ammalati senza reddito nella città. Lo scriveva anche Carlo Cattaneo, nel 851: “Nella
sola provincia di Milano si ha una rendita annua di oltre 7 milioni, proveniente
da legati pii, da pie fondazioni”. Una cifra, aggiungeva, “che nelle debite proporzioni
dà un risultato di soccorso maggiore di quello che offre la tassa pei poveri d’Inghilterra”.
La
nascita della borghesia nazionale ne fu infettata, facendo dell’appropriazione
indebita e dell’avidità il suo dna. E una questione sociale subito si creò, per
l’abbandono delle masse dei diseredati, di cui le storie nazionali non tengono
conto, ma testimoniato ampiamente dal proliferare dell’accattonaggio e le
epidemie.
astolfo@antiit.eu