sabato 20 agosto 2016

Il rifiuto dell’imam

Lamentano gli islamici che l’islam è poco conosciuto, e per questo si creano incomprensioni. Questo è vero. Verissimo in Italia, dove l’ignoranza geografica e storica in un paio di decenni della riforma Berlinguer ha aperto abissi. Proviamo a fare luce partendo dall’imam di Firenze Izzedin Elzir, che fa le cronache.
“Imam di Firenze” è titolo improprio: Elzir non è un cardinale o un vescovo, è uno fra i tanti. Imam è chi guida la preghiera. Non è un prete e non è un ministro del culto. Non professa voti, non fa parte di una chiesa, non ha catechismi né gerarchie a cui obbedire, e anzi non risponde a nessuno, eccetto che ai suoi finanziatori. Nell’islam sciita è una sorta di papa, il discendente di Alì, genero di Maometto, ma nel resto dell’islam, che ne è il grande corpo, è titolo da poco. Forse, quando si applica all’insegnamento dell’arabo e del “Corano”, un maestro, di scuola.
L’imam di Firenze ha postato beffardo monache al mare, per irridere quei sindaci francesi che hanno proibito i bagni con il burkini. Facebook l’ha oscurato. Manna per l’imam, che ne ha fatto uno scandalo, dicendosi vittima di censura, di pirateria informatica, e diventa virale. .
Perché Elzir è significativo? Perché ha fatto un errore: si è levato la maschera. L’imam di Firenze, palestinese di nascita, 45 anni, 25 in Italia, non è un goliarda, è anzi uno che posa a autorevole. E, quello che più conta, non è un sacerdote – nessun prete andrebbe in giro a postare donne mussulmane infagottate in tre strati di  pezza al mare: è un politicante. Questo vuole dire due cose:
1) Non è una guida spirituale ma è molto più per i mussulmani: è un capo. L’imam non amministra sacramenti e non dà interpretazioni autentiche dei testi sacri, ma impone la legge, la sua legge. Alfano fa male a disinteressarsene, la moschea non è una chiesa.
2) La sua legge l’imam politicizzato – ce ne sono alcuni, pochi, che sono solo un po’ alfabetizzati, sanno leggere il “Corano” e si limitano a quello – predica come anti-integrazione. Insegna e diffonde il revanscismo. Dell’integrazione insegna come avvalersene senza aderirvi: stranieri in patria, quella che sarà, già è, la loro patria.
L’islam proposto da questi politicanti è del genere revanscista: “noi e loro”, e “noi siamo migliori di loro”. Giustificabile a metà Novecento, quando era in ballo l’autonomia dei loro popoli, del tutto fuori posto qui, dove i mussulmani sono richiedenti asilo o soggiorno. Un vezzo favorito dalla vecchia sinistra europea, tipo in Italia il Pci, che ha pensato di farsene degli elettori favorendone la sfida – ma i più, nel Lombardo-Veneto, sono per la Lega, contro i nuovi immigrati.
Sono questi imam i responsabili della radicalizzazione dei giovani, di quelli nati e cresciuti in Europa, anche se fingono di negarlo, protestandosi moderati. E a loro modo lo sono: tutti di estrema destra, nel linguaggio europeo. Con la vaselina, praticando la dissimulazione, che l’islam consiglia, ma nulla di liberale: non nella condizione della donna, non nel diritto di famiglia, non nei diritti di libertà, politica, di opinione o religiosa. L’antioccidentalismo che propugnano non è per la democrazia ma contro.
Elzir ne è il prototipo. Si direbbe fiorentino, dopo tanti anni, e invece no. Lui stesso non lo pretende, benché solitamente mellifluo. Lui è sunnita, palestinese di Hamas, e Fratello Mussulmano. Ed è per questo motivo presidente dell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche, un’autorità per il milione e mezzo di mussulmani in Italia: un irriducibile, senza darlo a vedere. Finora.

La Russia è un teatro

“Un semplice libro di viaggio che pure, a distanza di anni, non mi pare fallito”: così l’autore alla ristapa nel 1943, dopo la prima edizione del 1934, a ridosso della pubblicazione in forma di corrispondenze su “La Stampa”. Un’indagine del “caro estinto” – i maestri del titolo sono dell’Unione Sovietica - che si (ri)legge con interesse, quasi a ogni pagina. Beché vecchio di ottant’anni, e scritto da uno che Marcello Flores inconsultamente vuole fascista, di quelli che lo erano “dichiaratamente anche se non entusiasticamente”
Molti eventi, e un occhio esperto: Alvaro è uno che vede e ascolta. Con riflessioni forse non originali, ma non comuni, e sempre al punto, col senno di poi. Tornano, sotto altre forme, gerarchie e disuguaglianze: “Tutta questa umanità nuova dopo il dilusivio «ricosttuisce» istintivamente lw stesse forme di vita”, lo “stesso ordine, come l’ape ha in sé la forma della della sua crudeltà”.. Con un di più - o un di meno: “Nelle diversità delle classi v’è una crudeltà tuttta nuova”. Il sospetto, con la deunica costante. La mancanza di pietà – russa più che sovietica. Lo stermnio dei contadini, senza pietà appunto e nelle forme più feroci, compresa la fame indotta – “i contadini che vanmo nelle città a cercar pane”. Di diecine di milioni di contadini. L’“imponente «politica della carte»”, la plitica culurale. L’instabilità, nella cosiddetta sicurezza sociale: le statistiche dicono che “le aziende cambiano il personale di lavoro da tre a cinque volte l’anno”. Donne ovunque, in qualsiasi ruolo: “La Russia di oggi dorebbe fare un monumento alle sue donne”. Il culto dei russi per la poesia, che già più non c’era da noi. E di più per il teatro, “questa facoltà mimetica tra orientale e greca”, in strada, a casa, ovunque, anche a teatro: Alvaro, tragediografo in petto, ne è scioccato –– con la lettura più appropriata della novità Mejerchol’d. La guida obbligatoria, in genere donna, che deve controllare l’ospite, e gli parla per slogan. La lotta antireligiosa: “Il cristianesimo rimane sempre l’origine della concezione dell’individualità umana… Socialmente, oggi, è la fine della concezione cristiana dell’individuo; il bolscevismo fa dell’individuo un prodotto sociale, una conseguenza fisiologica e ambientale”. La pace dell’anima infine a sorpresa sul Volga, un’oasi, da Nizhni a Astrakan, una settimana di riposo, dell’occhio e della mente. :
Prosa briosa, e sempre esatta, misurata. “Non sono andato in Russia come uno dei transfughi intellettuali di cui abbonda l’Occidnete”, dichiara Alvaro alla fine, “i quali, disperando della civiltà, pensano al bolscevismo come a una soluzione bella e fatta. Di soluzioni questo assetto non ne dà nessuna. Dà un metodo, che è quello stesso delle nazioni in guerra”. Con “visioni” che saranno malapartiane (“Kaputt”, “La pelle”), della voga espressionista da Alvaro frequentata a Berrino. L’ufficio a Mosca dei matrimoni e divorzi: una stanzetta, in cui ognuno scrive qello che vuole. Il “misticismo” della pedagogia: tutto viene spegato a Alvaro ab ovo, come a un bambino: il pentagramma, il cervello, la lingua, la trottola, ogni cosa ha “una storia a partire dall’anno 1917”. O l’orrido: i bambini che alle stazioni bussano al vetro per chiedere “dàitie klièba, dàitie, dàitie”, dateci un po’ di pane, datecelo, datecelo. Le masse in eterno viaggio sui treni, su tutti i treni, in tutte le direzioni, senza una meta precisa.
A cura di Anne-Christine Faitrop Porta, curatrice assidua e purtroppo unica di Alvaro in questo millennio. L’edizione precedente,1985, per Memoranda, si avvale di numerosi contributi. Un risvolto di Fofi, che mette la raccolta in quadro: nella letteratura di viaggio, o di tipo giornalistico, “che sembra la parte più duratura di Alvaro”. Un’introduzione di Marcello Flores, che fa una disamina storica dei “viaggi in Urss” prima delle purghe, dai Webb a Gide, Céline, Aragon, Joseph Roth, e in Italia di Gaetano Ciocca, l’ingegnere, e il giornalista Bardi: un panorama in cui Alvaro spicca per vivacità e intelligenza, umana e politica. L’avvertenza che lo stesso Alvaro scrisse per la riedizione del 1943. Fofi, che riconosce a Alvaro in queste corrispondenze “pulizia e chiarezza, e lucidità e vivacità”, gli fa pure il complimento massimo, anche se lo ritiene riduttivo (“dispersiva creatività”): per l’impeto e il senso vigile della realtà, invece della chiusura di moda a quel tempo nella torre d’avorio della “letteratura”.
 “Una delle note più forti” del viaggio è “la rinascita dell’istinto”, femminile, materno. Con un’analisi delle più affinate – per esempio in parallelo con le analoghe letture che dell’Urss aveva fatto Joseph Roth – sull’“uguaglianza” nel socialismo: molto borghese. Partendo dall’aneddoto del russo di bassa condizone, forse un operaio, messo alla porta del ristorante dove pranza uno “straniero”: “La Russia è sul punto di stabilire i rapporti fra persone su un piano gerarchico, lomtao da quello che s’imamgina solitamente”. Mentre “nell’Occidente i rapporti si sono alquanto imbrogliati a scapito d’una certa gerarchia”, per la crescita della “classe media”, che comprende molti operai. Le sorprese sono molte.
Un racconto sorprendente, fortemente drammatizzato, evocativo, sono i “pezzi” sulla regione attorno a Bakù, sul petrolio. L’“oro fluido” invece dell’oro nero – il petrolio non é nero. Che dai tempi di Zoroastro, con le sue “nuove leggi”, ha governato quella parte del mondo, il “Fuoco Eterno”: “Quella fiammella fu il segnale manifesto della presenza di un Dio, che dall’antichità da qui sparse i suoi riti in India, e fino a Ostia, e dove oggi sorge la Basilica di San Pietro a Roma”. E ha  infine sostituito la “lotta per l’oro”, e ha trasformato la nostra civiltà. Vista nella desolazione spesso cupa della Russia, la desolazione attorno a Bakù e sul Caspio è febbrile, creativa. Il petrolio “non è l’idea della penuria. Piuttosto d’un bene più grande  della stessa natura, d’una ricchezza che ha sconvolto l’ordine dele cose”. Attorno al Caspio, “si assiste quasi a una trasmutazione degli elementi”. In atto da tempo, durevole: “Le vicende dei cercatori di petrolio, avventurose come quelle dei cercatori d’oro, sono già memoria lontana..Si chiusero quando Nobel … si presentò lacero e irriconoscibile alle truppe bianche che avevano tentato il dominio di questo lembo di terra nel 1921”. I fratelli di Alfred Nobel avevano all’epoca in Russia la maggiore compagnia petrolifera “integrata” al mondo, in concorrenza con i Rotschild, ed erano il primo produttore del petrolio del Caspio, che era il maggiore bacino di petrolio per l’esportazione fino all’avvento negi anni 1930 del Medio Oriente, per questo conteso più di ogni altro territorio dalle potenze europee della controrivoluzione.
Corrado Alvaro, I maestri del diluvio, Falzea, pp. 444 € 24

venerdì 19 agosto 2016

Ombre - 329

Renzi annuncia che riduce le tasse alle imprese, Salvini e i vice-Grillo – Grillo è in barca - annunciano proteste popolari: i “forconi” a palazzo Chigi. Cioè? Basta andare sui giornali, comunque.

In Libia il generale Haftar, ospitato per vent’anni di esilio negli Usa e ritornato in patria nel 2011 per proporsi come il dopo-Gheddafi, si mette ora in guerra, annuncia, con gli stessi Usa. L’asilo politico è dovuto, ma è un’arma a doppio taglio.  O della riconoscenza vissuta come un castigo.

Il giudice Cantone dice la cannabis necessaria “da papà”. È commissario all’Anticorruzione ma questo non c’entra nulla – a parte che spendere per la marijuana libera la sua influenza di capo dell’Anticorruzione. Ai suoi figli la marijuana non vorrebbe dargliela. Ma soprattutto, se succedesse, vorrebbe evitare loro un contatto ravvicinato con le mafie.
È pure vero che Cantone è un giudice napoletano, fa scena.

Mons. Galantino dice a Accattoli che il velo mussulmano è come quello delle suore, e delle “nostre mamme contadine”. E se una donna mussulmana non volesse portarlo?
Possibile che un segretario dei vescovi italiani non sappia che il velo mussulmano è imposto alle donne?

“Lo stesso, si capisce”, continua Galantino, “deve valere per un cattolico che voglia portare la croce, o per un ebreo che indossa il kippà”. Il velo come simbolo religioso?
Qui non si tratta d’ignoranza.

Non finiscono le sorprese on l’obbligo di pubblicità degli stipendi e onorari pubblici: il capo di gabinetto della sindaca di Roma, Raggi, percepirà poco meno di 200 mila euro. È una giudice, Carla Romana Raineri, e si capisce ora perché i giudici preferiscono i gabinetti ministeriali ai palazzi di giustizia: potere  e molti soldi, con vitalizio doppio.

Io sono un magistrato protesta la capo di gabinetto di Raggi, la giudice Raineri: “Guadagnavo 170 mila euro”. Capito? Magistrata fuori ruolo.

Ci vuole una milanese a Roma – Raineri è piacentina, ma vive a Milano – perché a Roma non ci sono persone oneste. Eccetto la sindaca Raggi. Anche l’assessore Muraro. E il segretario di Raggi, un impiegato del Comune che si triplicato lo stipendio.

Procede senza tregua a Roma il nuovo corso parsimonioso dei 5 Stelle, rispettosi del denaro pubblico: superconsulenze agli esperti di trattamento rifiuti, senza smaltirli, e superstipendi ai giudici e ai segretari personali. A quando gli appalti?

Hamza Roberto Piccardo propone la poligamia. Non per altro, per alleviare la crisi delle nascite. “Hamza” è un convertito all’islam, e uno telegenico, in cerca di “visibilità”. Però rende manifesto il senso dell’allegria che gli dà la conversione: di sfida fino alla legge e alla cultura di “questo Paese”. Svela il punto debole della politica dell’integrazione, se è sfidata e non accettata. E, benché politico professionale, non teme di svelarlo, anzi.

L’estate rovesciata
Sarà per la crisi
Ma sotto gli ombrelloni
Più ambulanti si aggirano
Che bagnanti.

Il superlatitante corrispondeva con i servizi

Le lettere prendono una trentina di pagine, Salvatore Mugno provvede al resto. Una corposa introduzione e una lunga vita del personaggio, circostanziata, che si legge come un romanzo – anche se di personaggio a una sola dimensione, il sangue degli altri.
Mugno dubita dell’autenticità delle lettere – anche noi, ogni lettore. Ma non dice l’ovvio: non le avrà scritte il destinatario? Destinatario è un “professore”, forse di Filosofia, forse di Lettere, che forse non lo è, lo è la moglie, ma si compiace di farlo credere, Tonino Vaccarino, compaesano del latitante, noto eccentrico di Castelvetrano, di cui pure è stato sindaco per un anno, con una spessa fedina penale.  Da ultimo riciclatosi – qui il papocchio è evidente – come informatore dei servizi segreti, dell’Aisi.
“Alessio”, così si firma Matteo Messina Denaro, sa molto di anagramma, dell’Aisi stessa, e di assioma, termine che usa spesso, spesso non congruamente. Oltre che all’assioma il latitante si compiace di riferirsi a Malaussène-Pennac, Toni Negri e Jorge Amado. Insomma, uno scherzo, quasi. Denaro è uno scrittore compulsivo di lettere, i suoi “pizzini” al capomafia Provenzano erano lunghi pagine, dettagliati e prolissi. Di tale natura che Camilleri ebbe a dirlo nel 2007, nel libro “Voi non sapete”, sulla corrispondenza fitta di Provenzano, “il latinista del gruppo”. Ma corrispondere con una spia per un furbo superlatitante è troppo, e in che termini poi, poco meno che se si rivolgesse a un dio. La prosa di Vaccarino – che La Licata ha variamente immortalato sulla “Stampa” – è peraltro della stessa pasta.
Un vero dramma siculo, alla Pirandello, in cui ognuno è non si sa chi. Lo stesso Mugno, buon siciliano, non si priva di evocare Cellini, Caravaggio, Stradella come precedenti in fatto di “binomio artista-criminale” – c’è qui un artista? – e Villon, Genet, Gregory Corso, “fino a certi nostri autori  contemporanei coinvolti in vicende omicidiarie: Massimo Carlotto, Adriano Sofri, Cesare Battisti….” E qui è evidente che in Sicilia qualcosa non funziona – anche se non può essere il sangue, come vuole Virgilio Titone, il polemista, anche lui di Castelvetrano, il riferimento di Mugno (il sangue? Castelvetrano ha imponenti palazzi e chiese, quella di san Domenico ricca di affreschi, “come la Cappella Sistina”, e di un complesso vertiginoso di statue, nonché Selinunte, e tuttora è un centro produttivo di prim’ordine, per l'evo pregiato Nocellara del Belìce).
Massimo Onofri successivamente a questa pubblicazione ne ha avallato la veridicità. Ma il ridicolo della corrispondenza – a maggior ragione se le “lettere a Svetonio” le ha scritte o fatte scrivere Matteo Messina Denaro – svuota il terribilismo della mafia. Che è terribile solo nel tiro a segno, o nel plastico, a tradimento, mai a viso aperto, per il resto è sopraffazione, furfanteria e stupidità. E sicurezza di sé, soprattutto, quasi in regime d’impunità. Il superlatitante che si dice un perseguitato – vittima della mafia, a suo modo, anche lui – è un topos ricorrente, ma in questo caso perfino argomentato. O stava trattando con “Alessio” la resa, con i beni – una parte dei beni – in libero uso ai familiari, come con i familiari di Provenzano
La vita-romanzo di Denaro prima della lunga latitanza, ormai di venticinque anni, è semplice e fantastica. È figlio di un mafioso, conosciuto per tale, che la famiglia, moglie, figli, nipoti, ogni anno onora sul “Giornale di Sicilia” con un necrologio molto sentito – per un paio d’anni, quelli di questa corrispondenza, con estratti di Lucrezio in latino. È autore di almeno cinquanta omicidi,  a partire dai diciotto anni – e probabilmente dei dieci morti e 106 feriti degli attentati del 1993 sul continente, ai Georgofili e gli Uffizi, a via Palestro a Milano, a san Giovanni in Laterano e a san Giorgio al Velabro. Ma fino ai trenta sconosciuto, comunque non perseguito. A tempo perso faceva il gigolò – oggi toyboy – con altri coetanei di ricche signore di mezza età di Palermo. Con molte amanti giovani strafiche, tra esse un’impiegata austriaca dell’Hotel Paradise Beach, di cui farà uccidere il mite gestore, che scherzava sulle sue imprese amatorie.
Latitante dal ‘93, da quando infine è stato “scoperto”.  Ma non senza lasciare tracce, benché inafferrabile: si sa che è stato in una clinica oftalmica in Spagna, e in vacanza con gli amici al Forte dei Marmi, assiduo di un bagno “Rossella”. Il padre percepiva l’assegno di disoccupazione dell’Inps, e poi la pensione. Scherzando, naturalmente, non si può affermare che i Denaro si nascondano.
Un interrogativo comunque va posto: perché dire che “Svetonio”, al secolo Tonino Vaccarino, l’unica cosa certa di questa corrispondenza, era dei servizi segreti, se lo era? Le liti tra i corpi separati, polizie speciali, servizi, giudici, importano più del superlatitante?
Matteo Messina Denaro, Lettere a Svetonio, Stampa Alternativa, remainders, pp.,127, ill., € 6

giovedì 18 agosto 2016

Problemi di base - 289

spock

Putin apre sulla Siria, apre sulla Turchia, apre sull’Ucraina, porte aperte in Russia?

La Russia non prenderà freddo?

E Obama che fa, non vuole raffreddori?

Perché fare la guerra alla Russia, che è un sesto delle terre emerse?

Ci hanno provato Hitler e Napoleone, Merkel pensa che le andrà meglio?

Oppure Poroshenko. O Obama?

Fare la guerra, perché, per chi?

Quante guerre stiano facendo, dobbiamo fare?

E se sciogliamo la Russia, chi ci protegge dalla Cina?

spock@antiit.eu

Eco esagerato, divertente

L’Italia rovesciata: la Chiesa laica e mondana, l’industria ascetica. Ma non lontano dalla realtà - non tanto. O la storia dell’unità rifatta: i Borboni patriottici, Mazzini austriacante. Con un soggetto per Ermanno Olmi tanto esilarante quanto inenarrabile.
Eco al’esordio, quasi, nel 1963. Con divertita sicumera: “Tale è la ventura della parodia: che non deve mai temere di esagerare. Se colpisce nel segno, non farà altro che prefigurare qualcosa che poi altri faranno senza ridere – e senza arrossire – con ferma e virile serietà”. Che non è vero, ma si ride lo stesso.
La vera vena di Eco, benché studioso accigliato e narratore opimo: scherzosa, strutturante – destrutturante? Antifrastico, e quindi cattivello, ma divertente. Con una “Nonita” di un Umbeto Umberto ristretto nelle “carceri comunali di un paesino del Piemonte” - che non sia, “il misterioso prigioniero, Vladimiro Nabokov paradossalmente profugo per le Langhe?” Tanto Joyce, tutto in un titolo, “My exagmination round his factification for incamination to reduplication with ridecolation of a portrait of the artist as Manzoni”, e un perfido nuziale-funebre: che “la veglia funebre di Tim Finnegan appaia per quello che veramente è, la veglia nuziale per Renzo e Lucia”. Con “La fenomenologia di Mike Bongiorno” che ha fatto epoca.. “L’elogio di Franti”, un “Industria e repressione sessuale in una società padana” che è l’indagine di etnologi australiani a Milano, lo schema “di un nuovo gatto”…
Umberto Eco, Diario minimo, Bompiani, pp. 153 € 8

mercoledì 17 agosto 2016

Tutti pazzi per Erdogan

Non ci sono colpi di Stato con cinquantamila congiurati. Nemmeno con cinquecento. Hitler, che era alla frutta, fu feroce dopo il 20 luglio: 7 mila arresti e 5.684 esecuzioni. Doveva emulare il Terrore Rosso del ‘18, dopo l’attentato a Lenin - 6.185 fucilati, 4 mila ostaggi, 21 mila carcerati. Ma per arrivarci dovette calcolare i parenti fino al terzo grado.
Se quella in Turchia non è l’eliminazione dell’opposizione, che altro è? Sono “congiurati” un terzo dei giudici, un terzo dei professori universitari, un terzo delle forze di polizia.
Ma forse è anche peggio. Liberare 40 mila criminali è criminale. Dell’irresponsabilità dei despoti asiatici di un tempo, non di una società e un’economie integrate nel vivere civile.
Tutto questo qui accanto. Tutto questo anche nel nome dell’islam: non è un segreto che la Turchia di Erdogan è stata ed è tramite e piattaforma dell’oltranzismo islamico, terrorismo incluso, in-e-dalla Siria, in Egitto, in Libia, in Tunisia.
Però, Erdogan non si critica.

Letture - 270

letterautore

Acquario – Si liquidano le posizioni – l’età dell’Acquario è già finita (ma non doveva cominciare tra cinque secoli?) Dei 1.500 libri in inglese che Ibs liquida, quattro su cinque sono in tema.

Compagno – Aveva sostituito convivente, nelle relazioni more uxorio senza matrimonio. Ma se ne va perdendo l’uso nelle unioni omosessuali, nelle quali si preferisce il ruolo, “marito” e “moglie” – e si cerca il matrimonio, a preferenza sull’unione di fatto. Negli Usa la ricerca continua  di un vocabolo politicamente corretto, partner essendo insufficiente per una relazione intima e costante. Il  “significant other” di qualche decennio fa - di cui anche a una guida dei possibili disturbi, “The Significant Others Guide to Dissociative Identity Disorder” - ha perso terreno .

Critico – L’Autore è il suo Critico. I casi sono evidenti nel primo Novecento, di Debenedetti per Svevo o Montale, e anche per la fortuna italiana di Proust.  O di Contini per Gadda, Pasolini, e tanti altri. E il contrario è anche vero, di Citati, per esempio, che vive nei suoi autori, del mimetismo, o dello stesso Magris narratore, che è e non è J. Roth, ma in tutto si rapporta a lui.

Umberto Eco  Il narratore richiama Evola – specie l’argomentatore della sua stessa narrazione, “Postilla al «Nome della rosa»”, “Confessions of a young novelist”, e molti interventi sparsi. Non il personaggio, i suoi temi. Un Evola che fosse stato sornione, critico di se stesso – paraculo, come si dice a Roma,  per farsi voler bene.
Una lettura improbabile, la sua, quella di Evola. Eppure:tutte le tematiche di Evola sono in Eco. Che le affronta garibaldino con lo sghignazzo sempre, ma non sa (vuole) liberarsene. “Il pendolo di Foucault dice (“Confessions of a young novelist”) che gli ha preso otto anni di lavoro, quattro volte più del “Nome della rosa”, ma è un compendio sceneggiato di Evola. Con disagio apparentemente dell’autore, e con qualche sberleffo, ma poi, nella troppa pubblicistica con cui ha accompagno il romanzo, invece no: Eco è un personaggio dell’ermetismo che irride. E poi dopo, nelle ultime narrazioni, “Il cimitero di Praga” e perfino “Numero Zero”.

C’è l’Eco conversatore. L’Eco lettore, divertito e divertente. L’Eco narratore, compiaciuto, prolisso, e immemorabile. L’Eco a tempo perso dei “filosofi in libertà”, acuto. E l’Eco professore di semiotica, navigatore a vista  - che sa di esserlo, l’onestà è indefettibile. Tutto questo si lega, come rumore di fondo della vivacità del personaggio – come quando si ascoltava la radio, e a un certo punto la mattina annunciavano “Il prigioniero di Zenda”, che non si seguiva, oppure sì ma come sottofondo sonoro, come leggere “saltando”, e con un senso sempre di disagio, per un prigioniero, lì sulle Api (ma Zenda è un luogo? ed è sulle Alpi? sui Carpazi?)

Romanziere postmoderno per eccellenza: di programma forse prima che di passione o propensione. Che adotta e rinverdisce a freddo, di proposito, il programma di Walter Scott e Dumas. Lo sguardo, seppure da dietro, sempre a Manzoni, senza la lirica, né la concisione.

È immaginativo. Lo dice di se stesso (“Confessions of a youg novelist”) e lo è. Conversatore disinibito e ritmato perché ispirato dalle immagini, vede quello che racconta. Felliniano: disegna, in cento, mille immagini, confusamente, continuamente, personaggi e situazioni.- uso che manifesta nella primissima pubblicazione, quasi goliardica, nel 1958 a Torino, i “Filosofi in libertà”, rimette e filastrocche accompagnate da vignette.

Resta affabulatore gradevole su sentieri agevoli, irsuto (poco convincente, poco convinto) su per la grammatologia e l’ermeneutica (l’intenzione dell’Autore, l’intenzione del Lettore, l’intenzione del Testo…). Non ama la differenza che si fa tra scrittura creativa, “termine malizioso”, e scrittura scientifica – “perché Omero è ritenuto uno scrittore creativo e Platone no?” Ma fuori dalle agudezas (aforismi, calembour, aneddoti, motti di spirito, ritrovamenti e accostamenti a sorpresa) è irto di unte. Non limate.
Al più, filosoficamente, un sollevatore di pietre d’inciampo - seminatore di dubbi, sulla sua stesa riflessione.

Islam – Come  materia letteraria si direbbe ultimamente tutto femminile. Fioriscono le autrici, con ciador e senza ma solidamente simpatizzanti o fedeli. E le storie: di ragazze per lo più, che scappano nel califfato, tutte adepte di facebook. E ne scrivono, posando in nero, madri che le cercano o le rifiutano, facendone best-seller.

Italia – “Scusatemi se ho parlato troppo, il sangue italiano mi tradisce”, ha concluso il papa dopo lunghe ramanzine e concioni ai vescovi polacchi. L’Italia lo tradisce nel senso che parla troppo – si parla di meno in Argentina? Oppure che non lo tiene all’erta e in palla, lo porta a divagare? Non parla molto dell’Italia, il papa.

Mattatore – Proietti rispolvera il “mattatore”. Nella figura di Edmund Kean, l’attore shakespeariano del primo Ottocento che ne è diventato il prototipo, grazie all’opera teatrale a lui intitolata di Dumas. Un’idea che forse a Proietti è venuta per i sessant’anni del film che a Kean dedicarono Francesco Rosi e Gassmann. Ma è la figura centrale del teatro, di ogni forma di teatro: bisogna dominare il pubblico, il pubblico deve’essere dominato. Avvinto, trascinato, scosso Altrimenti si annoia. Il teatro ha bisogno di attori. Il mattatore è l’attore cui basta indossare i panni di un personaggio, panni metaforici, per identificarglisi completamente.
Senza riferimenti a Grillo? Invece che ricorrere a Dumas, Rosi e Gassmann, uno spettacolo avrebbe potuto fare, molto comico, di un comico che fa il dittatore. di un  mondo ridotto a palcoscenico.

Politica – “C’è chi si chiede tutti i giorni se la satira è satira””, riflette Massimo Bucchi su “la Repubblica”, e commenta: “Ma si guarda bene dal chiedersi se la politica è politica”.

Wagner – Fu antisemita, in tutto, dalla precoce teoria e pratica musicale (“L’ebraismo nella musica”), 1850, al successivo pregiudizio nazionalistico e politico, da cui Nietzsche si ritrarrà inorridito. Ma si discute sempre di e come salvarlo. Discutono gli ebrei, da ultimo Taguieff e Fubini, e i controversisti, Žižek, Badiou. Donatella Di Cesare si supera, come filosofa tournée musicologa, nell’incensare Wagner per interposta pubblicistica. In effetti, non ci sono più incondizionali di Wagner, a parte Baudelaire, e naturalmente i tedeschi-tedeschi, degli ebrei, tedeschi e non.
L’antisemitismo di Wagner Di Cesare dice contraddetto da “Parsifal”: “Qui il protagonista, quasi lasciandosi alle spalle il legame fraterno e elitario del Graal, si apre a una nuova comunità”. Quella europea? E Parsifal l’ha inventato Wagner?


leterautore@antiit.eu

Il corpo in chiesa

Una vertigine, del corpo maschile, illustrato e “vilificato”, si direbbe nel femminismo, in ogni posizione, non necessariamente del martirio. Anzi, quasi mai: il santo  non sorride propriamente, ma nell’intimo sì. Immagini di delizie sadomaso che si impongono nelle chiese e nei conventi. Grünewad, Holbein, Foppa, il catalogo elenca un centinaio di artisti, e non sono tutti., le riproduzioni sono quattro o cinquecento – è il santo forse più rappresentato della pittura religiosa, dopo san Girolamo libresco.
C’è molto da arare e portare alla luce nella sessualità. Da parte della chiesa forse più che da parte di ogni altro – ma anche Freud… Di detti e non detti, e di parti oscure. Il papa Francesco forse sta solo aprendo uno spiraglio su un altro mondo
Saint Sébastien dans l’histoire et l’art depuis le XV° Siècle, Jacques Damase Ed. 

martedì 16 agosto 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (297)

Giuseppe Leuzzi

Nelle corrispondenze dalla Russia raccolte sotto il titolo “I maestri del diluvio”, Corrado Alvaro riprende respiro, dopo settimane di miserie e deserti, a Rostov,  per “il vento e l’aere del Mediterraneo”: “A Rostov il clima dà una certa letizia; la sera, sulla strada centrale intitolata a Engels, passa come in una città dell’Europa meridionale: la gente passeggia spensierata, gli uomini sono ben fatti, le donne forti e belle, e in genere tutta la vita meno affannosa”.
Alvaro, si sa, è nato e cresciuto in Calabria, nell’Aspromonte, ma poteva scrivere di questo sollievo sulla “Stampa” di Torino, nel 1934.

Continua Alvaro, in altra corrispondenza, per illustrare la regione di Rostov, il richiamo al Sud: “Il Caucaso tra Rostov e la costa del mar Caspio ha una somiglianza con una regione italiana, quella che si stende fra Salerno e Battipaglia”. Allora i lettori della “Stampa” sapevano dov’è Battipaglia?

In “Il mio amico Maigret”, secondo volet della trilogia maigrettiana del Sud compilata da Adelphi, il commissario, “che in fondo non amava troppo il Midi”, vi si trova immerso fino al collo. Per giunta in un’isola, piccola, Porquerolles, sovrastato dalla luce e dagli odori. Ma di più dalla presenza muta, in qualità di osservatore-ammiratore, di un ispettore di Scotland Yard. Il quale invece il Sud se lo gode tutto, compresi i “bianchini” e i bagni di mare. In reazione, lui dice, al puritanesimo, in realtà perché senza pregiudizi.

Perché la Sicilia non è la California
Perché la Sicilia non è la California d’Italia è vecchio tema. Ha tutto della California, le arance, il vino, il petrolio e il clima buono, con i terremoti e gli incendi, ma non sa capitalizzarlo, farne un moltiplicatore del reddito e del buon vivere. E anzi sempre annaspa. Colpa della Spagna, si dice, ma la Spagna non c’era anche in California?
Una parte sicuramente interessante delle controverse “Lettere a Svetonio” del boss latitante Matteo Messina Denaro è l’introduzione di Salvatore Mugno. Per la parte che Mugno riserva a Virgilio Titone, compaesano del boss a Castelvetrano, alle sue trascurate “Considerazioni sulla mafia”, 1957, assortite da “Storia, mafia e costume in Sicilia”, 1964,  e alla sua più generale mentalità di siciliano rivoltato… di essere siciliano. Condizione non eccezionale nell’isola – è parte della stessa deresponsabilizzazione che denuncia – ma in Titone acuta: battezzato Virgilio Pio Libero dal padre socialista, professore a Palermo di Spagnolo, e poi di Storia Moderna, fu polemista collaboratore di “Epoca” e “L’Espresso”.
Qui ci sono “colpe” più sostanziali che non quella della Spagna. Controverse sono pure le sue “Considerazioni sulla mafia”, e le note successive in materia, che Titone individua come “malattia morale”, per usare la formula di Croce per il fascismo, attribuendola all’“indole”, al “carattere”, e altri concetti vaghi, il “sentire”, “l’anima dell’isola”. Ma anche, in una mezza pagina che purtroppo non approfondisce, a una formazione\concezione ancora tribale della società: “In ogni caso l’organizzazione tribale rimane idealmente alla base della nostra società”.
Titone ci arriva indirettamente, con la non curiosa ipotesi che la disgregazione sia da ricondurre a un eccesso di umanità: “Forse deve vedervisi qualcosa di più umano che presso altri popoli non ci sia dato notare…in queste forme di quasi congenita asocialità o incapacità a vivere socialmente”. Alla quale arriva ancora indirettamente, dalla vecchia distinzione, “la sola distinzione possibile”, “tra gli amici e coloro che non lo sono”. Che è vera in un punto: è nemico tutto ciò, sia pure solo estraneo, “con cui non si hanno rapporti di simpatia, amicizia, colleganza, complicità”. Che è un disagio psicologico, ma, nei grandi numeri, è il fondamento dell’organizzazione tribale.
È in questo senso tribale di appartenenza, di cui è estensione la “sicilitudine” e affini, l’incapacità di crescere: la tribù protegge e nello stesso tempo impedisce, evitando la competizione, di accumulare e moltiplicare (affrancarsi, autonomizzarsi). E il fondamento anche delle perdurante anomalie psicologiche del “meridionale”, nel terzo millennio e in regime di piena libertà come nel 1957: il vittimismo e il risentimento.

La maturità al Sud
Bisogna chiudere il “Banzi” di Lecce, che ha avuto 26 lodi alla maturità, dopo il “Piria” di Reggio Calabria, che il primato ha detenuto per anni. Si angustiano altrimenti ogni anno per un paio di giorni il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, Canale 5, e anche la Rai: che questi 100 e lode non siano mafiosi? Anzi, sicuramente: sono uno scandalo, bisogna finirla, eccetera. Proprio nel mezzo delle loro vacanze, tra san Lorenzo e Ferragosto. Si eviteranno tanti sangui amari, pronti soccorsi, e anche qualche colpo apoplettico, con risparmio per l’economia dei servizi.

Il liceo di Lecce è anche selettivo: ha guadagnato 26 lodi ma ha comminato 32 bocciature, altro record – le bocciature sono 4-5 mediamente per istituto. E allora che scuola è questa, che boccia?

Si oppongono alle “maturità con lode” le valutazioni o “concorsi” nazionali e internazionali. Ma questi concorsi (Invalsi, Pisa, C1), organizzati e vinti dagli ex presidi, ora “dirigenti scolastici”, vedono primeggiare anche il Sud. Dove - a Lecce e Reggio Calabria - il dirigente è donna. Due donne, meridionali, in grado di organizzare e vincere gare e concorsi nazionali e internazionali, sono in effetti fuori del cliché. È questo che “ruga” a Gian Antonio Stella?

Il ragazzo del Sud studioso, che crede agli studi, è un topos del Sud, dato ricorrente se non proprio luogo comune letterario – il “Corriere della sera” e “la Repubblica” non lo sanno, ma loro sanno poche cose, non interessa loro sapere, sono “organi” d’informazione. Il Sud è mite e studioso, anche per questo è vittima dei mafiosi, per quanto pochi e numerati. Protetto, bisogna dirlo, da madri indulgenti.
Poi si perdono, nella fantasia di essere Leonardo incompresi: il romanticismo della bravura si ritorce contro. Un romanticismo forse innato, forse italico, di un’istruzione attardata. Che deriva al sentimentalismo. Nella mitezza inerme – si dice al Sud il tradimento degli intellettuali, ma è la loro mitezza. Salvo, poi, fare “il professore”, o “la professoressa”. A Cuneo, o ad Aosta. Dopo trent’anni di precariato.  

Perché la cultura si fermò alle Alpi
Visto oggi, nell’abominio - insomma, quasi: non sa fare i compiti a casa - e nella divisione, sembra un miraggio. Ma il Mediterraneo fu a lungo unito, assimilandosi a Roma, e produsse molti reperti culturali che fanno solida storia, leggi, filosofia, poesia, retorica, architettura, strade, acquedotti… A Cartagine e in Libia e Numidia, come in Egitto e in Siria, nelle Gallie, in Spagna e altrove: l’assimilazione fu proficua. Ed è pure vero che i Romani imparavano presto e bene nei territori sottomessi in cui c’era da imparare, e partire dalla Grecia, e poi in Libia, in Egitto e nell’Oriente Medio, e dai culti religiosi.
Niente invece che si ricordi del Nord Europa. Che non rifiutò l’assimilazione, contrariamente alla vulgata posticcia di Arminio dopo Teotoburgo, se la seconda Roma nacque a Treviri. Ma non ne seppe approfittare: non ne ha lasciato traccia  Non per le creazioni dello spirito. Nemmeno per i culti religiosi, per i quali Roma era di manica larga, e anzi ne era ghiotta, adorava qualsiasi Dio. Molti spagnoli e molti africani, oltre che i “greci”, quelli che saranno poi i bizantini levantini, si ricordano nelle storie,  romane e non, per opere dell’ingegno, ma nessun gallo o sassone.

leuzzi@antiit.eu

Una brutta storia della Resistenza

È la postfazione per la traduzione francese ora approntata di “Partigia”, il libro che lo storico ha pubblicato nel 2013 sulla Resistenza e la cattura di Primo Levi in valle d’Aosta, e sull’“evento brutto” che lo aveva turbato - “evocato nel 1975, in dodici ellittiche righe del «Sistema periodico»”. Evento che Luzzatto ha identificato nell’esecuzione a freddo, senza motivo, se non l’“indisciplina”, e senza un giudizio, di due ragazzi dello stesso movimento il 9 dicembre 1943, Fulvio Oppezzo e Luciano Zambaldano. Un’esecuzione sommaria da parte di un gruppo di partigiani poco o per nulla attivi, più che altro sfollati, tutti laureati, come se in montagna avessero portato le abitudini della buona borghesia - “il cuore di tenebra del mio libro”.
La ricostruzione di questo episodio gli ha valso critiche che lo storico ha voluto approfondire. E ci torna su con una serie di nuove ricerche e prove che confermano la sua ricostruzione: i due ragazzi non erano colpevoli di nulla. Se non, forse, di aver macellato di nascosto, non di insubordinazione o tradimento, né di altri delitti gravi. Una documentazione emersa successivamente conferma peraltro che i due furono uccisi a bruciapelo, con un colpo di pistola alla tempia, “probabilmente mentre dormivano”. Di questi metodi spicci, senza un giudizio, si può aggiungere la testimonianza che, in contemporanea con Primo Levi, ne dava Meneghello nel profuso racconto del suo anno e mezzo da partigiano,  “I piccoli maestri”.
Nella ricostruzione anche alcune storie drammatiche nuove. Della sfollata Elsa Pokorny, un’anziana ebrea austriaca, suicida il giorno stesso in cui il genero arrivava per rassicurarla. Albina Zambaldano, sorella di Luciano, oggi novantenne lucida e coriacea, una vita segretaria alla Einaudi, che dopo “Partigia” ha convocato Luzzato per confermargli tutto, e anche suoi numerosi incontri sull’argomento con primo Levi, da subito dopo il ritorno del chimico scrittore dalla prigionia, nel 1946. La testimonianza di Félicie Rosset, che nell’autunno del ’43 – a ventidue anni – faceva la maestra elementare ad Amay nella scuola pluriclasse accanto all’albergo “Ristoro”, dove Primo Levi alloggiava, presente al rastrellamento del 13 dicembre, con l’arresto del futuro scrittore e delle due “dottoresse”, Vanda Maestro e Luciana Nissim: Levi, per far capire alle dottoresse che non gli avevano trovato carte compromettenti, le salutò in latino: “Omnia mea mecum fero”. E nuove storie del tenente Edilio Cagni, “spia integrale” per Levi, “il prototipo novecentesco del cacciatore di prede umane” per Luzzatto, riciclatosi dopo la guerra in confidente dell’Oss-Cia, e poi in varie avventure, con molti anni a Regina Coeli, e un decennio nell’Iran di Khomeini. O del suo collaboratore Domenico De Ceglie, un giovane allora di vent’anni, che aveva fatto arrestare Primo Levi con una spiata, sfuggito alla defascistizzazione.
La seconda metà della postfazione analizza il “reducismo”. Dapprima nella forma del radicamento torinese di “Lotta continua”, in rapporto alla “Resistenza tradita” e alla “Resistenza continua”. Poi la parte più interessante: il doppio ruolo di Primo Levi, reduce senz’altro, della montagna e del lager, e testimone di una continuità mancata. Essendo nel frattempo passato dagli ambienti politici di Giustizia e Libertà all’orbita Pci – la “vittima umana” della sua prima memorialistica diventa “vittima politica”.
“Fra gli ingredienti della ricetta che rende «Se questo è un uomo» un libro unico entro il genere della memorialistica sulla Shoah”, riepiloga Luzzatto, “è la rinuncia a rappresentare la condizione della vittima di Auschwitz come vittima semita piuttosto che come vittima umana. È l’invito ai lettori perché considerino – fin dal titolo del libro, e poi nel salmo inaugurale – «se questo è un uomo» piuttosto che «se questo è un ebreo». D’altronde, il lavoro di editing compiuto da Levi in fase di stesura, dalla prima versione dattiloscritta a quella pubblicata nel 1947, era andato precisamente nel senso del levare quanto definisse in termini ebraici la condizione dell’internato, per definirla in termini universalistici (salvo far precedere il tutto dai versi ricalcati sulla Shemà, la preghiera degli ebrei: più che un esergo, un comandamento)”. Testimone sempre  ritroso del suo “impegno” nella Resistenza, che considerava dilettantesco – fino al punto di rifiutarsi di salutare nel 1967 l’albergatrice che lo ospitava in montagna dopo l’armistizio, e che fu arrestata con lui, scesa in città a omaggiarlo in occasione di una sua premiazione: “Primo Levi interessava a Primo Levi per la sua condizione di reduce del Campo, non per quella di reduce della Banda: in quanto ebreo salvato dalle «selezioni», non in quanto partigiano catturato in rastrellamento”.
Ancora a metà degli ani 1970, malgrado l’opportuno schieramento come compagno di strada del Pci, e quindi della retorica della Resistenza, diminuiva con chi lo intervistava il suo coinvolgimento: “Disse la ridicola pistola intarsiata di madreperla, l’improntitudine di ribelli senza armi né munizioni, i «partigiani un po’ banditi» raccolti sopra Arcesaz, il mal fondato sentimento di sicurezza dei partigiani al Col de Joux («non avevamo ancora fatto niente, era una banda di nome, ma non di fatto»).
Poi “L’attualità internazionale e l’attualità italiana degli anni settanta resero Levi particolarmente sensibile a ciò che l’autore di «Se questo è un uomo» aveva scelto di sottacere nel 1947: sia le origini storiche dell’universo concentrazionario, sia le circostanze politiche che avevano fatto degli antifascisti una componente della popolazione internata nei campi. Senza omettere , era sempre Primo Levi, nel libro che pubblicò allora, “Il sistema periodico”, le dodici righe sul “segreto brutto”.
Sergio Luzzatto, Ritorno su “Partigia”, pp. 32, free online c\o Il Sole 24 Ore

lunedì 15 agosto 2016

Il mondo com'è (272)

astolfo

Fascista – È diverso che “fascismo”: questo è un sistema politico, fascista è generico per violento, impositivo, sopraffattore, intollerante. Lo stesso Eco ne dà i contorni nel saggio “Il fascismo eterno”, che avvia con un interrogativo che è già la risposta: “Perché un’espressione come “Fascist pig” viene usata dai radicali americani persino per indicare un poliziotto che non approva quello che fumano? Perché non dicono: “Porco Caugolard”, “Porco falangista”, “Porco ustascia”, “Porco Quisling”, “Porco Ante Pavelic”, “Porco nazista”?”

Fascismo eterno – È la categoria di Umberto Eco - che in questo si allinea su Croce, sul suo fascismo come “malattia morale” – in un saggio che scrisse vent’anni fa per la “New York Review of Books”, che ora lo ripubblica – il saggio, che alla fine, modificandolo, intitolò “Il fascismo eterno” e ha incluso nei “Cinque scritti morali”, uscì (e riesce) come “Ur-Fascism” sulla “Nyrb” il 22 giugno 1995, e come “Totalitarismo fuzzy e ur-fascismo” su “La Rivista dei Libri”, n. 7/8, luglio/agosto 1995.
Partendo come usa da una domanda semplice - tutto è fascismo, ma che vorrà dire? - Eco si risponde elencando ben 14 attributi, direbbe Spinoza, del fascismo. Che di fatto sono solo uno: un sistema di potere. Lo stesso Eco fa questa differenza introducendo la sua riflessione. “Il nazismo era decisamente anticristiano e neopagano”, e un testo sacro che era “un manifesto politico”, “Mein Kampf”. Allo stesso modo, “il Diamat (la versione ufficiale del marxismo sovietico) di Stalin era chiaramente materialista e ateo”. Due dittature totalitarie. “Il fascismo fu certamente una dittatura, ma non era compiutamente totalitario, non tanto per la sua mitezza, quanto per la debolezza filosofica della sua ideologia”. Ma, poi, invece di dire che il fascismo in senso proprio (mussoliniano, italiano) è il fascismo che è durato di più, anche se solo un ventennio, e che è stato il più vociferante e presenzialista, ma il meno definito e anzi contraddittorio (anticlericale e clericale, innovatore e tradizionalista, rivoluzionario e reazionario, dei ricchi e dei poveri… ), un esercizio di potere, violento, lo definisce in 14 punti – cioè in niente (molti attributi sono “positivi”). Il culto della tradizione. Il rifiuto del modernismo. L’irrazionalismo, o l’azione per l’azione. Il disaccordo come tradimento. La paura della differenza. L’appello alle classi medie frustrate. L’ossessione del complotto, con connessa xenofobia. Il nemico esterno, troppo forte o tropo debole. La guerra permanente. Il disprezzo per i deboli. L’eroismo o culto della morte. Il machismo. L’antiparlamentarismo. Il neolinguismo.

Gerrymandering – È la tecnica, in uso da sempre negli Usa, in Europa dagli anni 1960, su iniziativa del generale De Gaulle, di ridisegnare le circoscrizioni elettorali in modo da favorire al voto il candidato del proprio partito – da Gerry, governatore del Massachusetts che nel 1812 ridisegnò le circoscrizioni sinuose, come salamandre, e appunto “salamandra”. Un po’ come le leggi elettorali italiane della “Seconda Repubblica”, che il partito vincitore ridisegna secondo le sue previsioni.
Maurice Duverger documentava già nel 1961 come il gollismo aveva ridisegnato le circoscrizioni elettorali a Parigi, segmentando le periferie urbane - la “cintura rossa” creata dagli sventramenti di Haussmann dopo il 1848 e dalla speculazione immobiliare sul centro storico, che spinse artigiani e lavoratori verso le periferie - che votavano socialista e comunista, in tanta fettine annegate nelle periferie residenziali e nel centro storico: si votava non più per quartieri, per comunità residenziali, ma per rettangoli sottili e sinuosi dal centro alla periferia operaia, con curve e gomiti per diminuire il peso del voto presumibilmente avverso. Negli Usa un organizzatore politico, David Daley, mostra in un libro appena pubblicato sul “Gerrymanderismo”, “Ratf**ked”, mostra una circoscrizione in North Carolina per il voto al Congresso, la 12ma, che è una sottile linea che va da Charlotte, la città maggiore, a  Salisbury e Greensboro, circa 90 miglia, 150 km., con un percorso peraltro molto sinuoso fra le tre città.

La tecnica il partito Repubblicano americano ha perfezionato con appositi studi nell’ultimo quarto di secolo, per bilanciare col voto legislativo, locale e federale, il voto presidenziale a prevalenza Democratico. Alle elezioni di novembre solo 37 su 435 seggi alla Camera dei Rappresentanti sono realmente in gara, gli altri sono già “assegnati” a solide maggioranze circoscrizionali, secondo il Cook Political Report, il sito indipendente che analizza le elezioni e le intenzioni di voto. Una “redistribuzione” di cui sono maestri i legislatori statali e i governatori repubblicani. Che ridisegnano le circoscrizioni elettorali in maniera da favorire il proprio candidato. Dopo aver studiato quartiere per quartiere e caseggiato per caseggiato, le scelte di voto dei residenti.

Grande guerra - Fu il disegno del’impero tedesco. Jünger onesto lo risonosce in “Fuoco e movimento”, un saggio del 1930, della guerra mondiale pianificata e gestita come una continuazione della guerra franco-tedesca del 1870: “Lo spirito di una tradizione vittoriosa si esprimeva nella fiducia considerevole e giustificata accordata alla forza d’urto che traducevano il concetto del combattimento dei tiratori scelti nella campagna piatta, la mobilità dell’artiglieria, la forza della cavalleria, e l’immagine strategica ideale della grande battaglia d’annientamento”
Il “valore del capitale guerra” diminuisce nel tempo, scrive ancora Jünger: “La vita interna della guerra è molto presto dimenticata, trent’anni di pace bastano a imprimerle il sigillo del leggendario e dell’inimmaginabile”. E questo è l’“errore” della Germania – non la sconfitta, cioè.
Non è quello che è successo con la Grande Guerra. L’Europa oggi non finisce di “celebrare” altro che un attacco suicida, lungo cinque anni, della Germania al resto d’Europa, la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia, la Russia con gli slavi in genere, al culmine della sua potenza. Attacco e non suicidio di massa, poiché ci sono delle colpe, degli attaccanti e degli attaccati. La “guerra civile europea” di Nolte non può distribuirle uniformi: nessuno disturbava i tedeschi.  La guerra no fu combattuta in Germania e in Austria, Germania e Austria la combatterono in territori alieni, che esse avevano invaso o occupavano.
Anche l’imputazione della guerra alla tecnica – al capitale, agli armamenti, la “guerra di materiali” – non può prescindere dal dato di fatto politico.

È i primo caso, straordinariamente cruento ma senza fare scuola, della guerra come potenza di fuoco: allora dell’artiglieria ma insieme già dell’aviazione e dei corazzati semoventi – invece della cavalleria. Dei campi di battaglia “vuoti di uomini” (Jünger). Si finisce allo stallo, alla “guerra di posizione”, dal Vietnam all’Afghanistan e all’Iraq-Siria.

Guerra aerea - Torna, coi bombardamenti in Libia, l’illusione della guerra che si vince dall’alto, per la potenza di fuoco, senza vittime proprie e con limitazione delle vittime nemiche – la guerra “chirurgica”. Ma la guerra aerea non è risolutiva. Non in Vietnam, Afganistan, Iraq, Siria. Sì nella guerra del Golfo e in quella alla Serbia, ma contro un’invasione avventata e non consolidata del  Kuwait, e contro un regime perdente. Si programma la vittoria nella Sirte in trenta giorni di bombardamenti, contro una minuscola forza militare sul campo, ma non è detto che se ne venga a capo.
È anche, la guerra a distanza e non di contatto, oggi aerea e missilistica, uno spreco di enorme portata, contrario a ogni legge dell’economia. Gli studi di Samuelson hanno legato la crescita all’economia bellica, ma con l’handicap dell’“effetto bolla”, dell’economia drogata soggetta al crac, senza contare l’effetto negativo in caso di insuccesso. La jüngeriana “guerra di materiali”, molto costosa e molto distruttiva, è anche inutile.

Internet – La rete funziona come i manifesti murali in suo nel sovietismo, specie negli anni quasi liberi, fino alle purghe staliniane. Redatti anonimi, o quasi anonimi, da chiunque, e affissi liberamente ovunque, anche nella metropolitana a Mosca, nelle stazioni, negli alberghi, perché ognuno, competente o incompetente, aveva diritto di mettere la bocca su qualsiasi argomento. E  soprattutto di denunciare  questo e quello, anche persone o fatti di cui non aveva nessuna cognizione. La differenza è che non c’è la polizia politica per raccoglierli – non sono delazioni. Ma denunce sì, anche pesanti, e mai senza effetto.

Italia-Caucaso – Non c’è solo l’identificazione dell’Italia con l’India, opera di Marx e Carlo Cattaneo
la penisola è stata identificata anche con il Caucaso. A opera dell’ing. Omodeo, che Corrado Alvaro incontrò a Rostov ottant’anni fa, alla pag. 153 del suo “I maestri del diluvio”, la raccolta delle corrispondenze inviate alla “Stampa” dalla Russia, dopo l’eccidio dei contadini e alla vigilia delle purghe  del Pcus, il partito Comunista: “L’ingegner Omodeo, consulente in Russia per molte opere pubbliche, quali il canale tra Don e Volga, e per opere d’irrigazione nell’Altai, ha computo uno studio in cui confronta la formazione della penisola italiana e di quella caucasiana.  Chi guardi una carta geografica può notare questa somiglianza esteriore  sotto la medesima latitudine”.

astolfo@antiit.eu

Non c’è più l’esotismo

L’insignificanza dell’esotismo, fatica sprecata per il poeta – che peraltro non pubblicò i racconti, uscirono postumi quando le altre carte del lascito erano state esaurite, trent’anni dopo la morte, non senza un po’ di scandalismo.
Un esercizio di riscrittura. Cui il poeta si piegò su richiesta Méry Laurent, la musa di molti nudi, di pittori e fotografi: riscrivere “Racconti e leggende dell’India antica” di Mary Summer, la cui traduzione non piaceva. Mallarmé ne prese quattro a caso, e riscrisse la traduzione.
Un esercizio da maestro di scuola. Anche l’India è stinta, bizzarra e crudele. Una curiosità.
Stéphane Mallarmé, Racconti indiani, Il S ole 24 Ore, pp. 79 € 0,50

domenica 14 agosto 2016

Stupidario romano

La moglie di Amartya Sen è stata ben curata al Gemelli di Roma: l’economista premio Nobel e il “Corriere della sera” se ne felicitano oggi per una lunga pagina. Miracolo a Roma?

Miracolo doppio - la signora Sen, una Rotschild, ben curata nell’ospedale dell’università Cattolica?

“Il mare del Lazio è malato cronico”, “Corriere della sera-Roma”, 13 agosto. E ora che la longevità cresce?

“Posteggiatori e ambulanti, Colosseo assediato, Attorno al monumento abusivi e degrado”. “Corriere della sera-Roma” 13 agosto. Ma la redattrice ha difficoltà a seppellire “il monumento con più visitatori al mondo” – dopo la Grande Muraglia, s’intende.

“Autisti senza bus. Situazione drammatica”, “Corriere della sera-Roma”, 9 agosto. Sono rimasti a piedi?

“Roma è la capitale dell’odio”, “Corriere della sera”, 11 giugno.


Fo fascista

Franca Rame fu vittima per anni, anzi decenni, del sessismo. Delle destre e non solo. Dei milanesi e non solo. E forse vittima di stupro sotto gli occhi degli ufficiali dei Carabinieri della “Pastrengo” a Milano. Ora Dario Fo fa il sessista con Maria Elena Boschi e se ne vanta: la vignetta del “Fatto” che la esibisce  tutta cosce è “bellissima”, dice, e di suo la ingrandisce in un quadro instant, che mette in vendita a ottomila euro. Un atto politico, dice, per finanziare Grillo. Le cattive amicizie colpiscono pure in vecchiaia.
È anche un ritorno alle origini, per Fo come per Travaglio, per i tanti grillini che ieri danzavano con Fini, e i (purtroppo residuali) lettori del “Fatto”.  Dare del fascista è vecchio vezzo linguistico, inutile. Non, però, se ci sono delle pietre miliari.
Definendo l’antisessismo “un tentativo di censura” Fo strafa. Ma non per un errore. Fo fascista non sarebbe un gioco di parole, lo fu di fatto a vent’anni. E una volta fascisti, fascisti per sempre? Sarebbe un interessate caso di sociologia politica.
Resta Grillo, che questa implosione governa, e fa finta di niente: in realtà ne è il complice e anzi l’ispiratore, uno che si finanzia con le cosce delle donne. Che il suo populismo fosse di quello stampo si sapeva per molte evidenze: l’“origine” di molti dei suoi, e l’apparentamento da lui voluto a Strasburgo con Farage e le destre d’ogni bordo invece che con i Verdi. Ma ora è inequivocabile: nel sessismo e nel disprezzo delle leggi dei suoi amministratori eletti – nonché nei sorrisi beati di Raggi in tutti gli ambienti romani di destra cogniti: bar, librerie, centri culturali, vicini di quartiere.
Questo caso è già noto agli studi di politica, che i moralizzatori di un certo stampo sono i più corrotti: autoritari e anzi violenti – in Italia con le armi della “Legge”, ma questo è solo un’aggravante l’uso politico della giustizia a opera degli stessi giudici.

La guerra in Libia è della Francia contro l’Italia

Il nemico in Libia non è l’Is, che se confrontato svanisce. La vera guerra è della Francia contro l’Italia. Da lontano, senza un fronte, ma ben delineata, in corso da almeno sei anni, e insidiosa. È una guerra per le influenze: Hollande continua il piano di Sarkozy di frantumare la Libia per allargare col Fezzan il suo protettorato sull’Africa Occidentale,  collegarlo al Mediterraneo, estenderlo informalmente all’Est, all’aera petrolifera sotto protettorato.
La Francia finanzia, arma e organizza i separatisti del Fezzan. E arma il generale Haftar, che intende contribuire alla divisione della Libia in tre tronconi, secondo il piano francese, attestandosi su una parte dell’ex Cirenaica, attorno a Tobruk. Da dove si pone a controllore dei giacimenti di idrocarburi. Haftar prima ha cercato l’appoggio dell’Italia, poi è andato a Parigi, l’Italia avendo deciso di lavorare in Libia insieme con l’Onu, cioè con gli Stati Uniti.
Hollande patrocina Haftar perché la divisione della Libia è un piano evidentemente “strategico”, nazionale, da Stato maggiore. Il gollista Sarkozy lo ha lanciato, il socialista Hollande lo persegue. Del piano la riprova è il silenzio di cui Parigi attornia l’intervento in Libia, a Sud e all’Est. Il piano è molto patrocinato dalle autorità francesi, seppure informalmente, anche presso la stampa, specie in Italia.

Secondi pensieri - 273

zeulig

Chiesa – È depositaria e mediatrice della grazia. Non ha altra funzione, e quando la perde deve in qualche modo riacquistarla – l’aggiornamento. All’infuori di essa non hanno senso il sacerdozio né i sacramenti.
Lutero e poi Calvino opportunamente l’hanno sfidata su questo suo cardine, eliminandone l’intermediazione –ma per questo stesso fatto riducendosi a religioni laiche: protestantesimo e cattolicesimo condividono l’idea di comunità, della grazia delibata in comunione, perché la comunità – l’effetto proselitismo - è un sicuro intermediario. Ma allora questo si realizza meglio con la fede e i dogmi, piuttosto che con lo scetticismo.

Corruzione – Dai tempi di Crasso usa l’anticorruzione. Se ne fa un’arma anzi indefettibile, che però non estirpa la corruzione e quasi anzi ne costituisce un terreno di coltura. Come si usa l’antimafia per far crescere (imparare, diversificare, inventare) la mafia. L’antiterrorismo per far crescere il terrorismo. L’antimilitarismo per rafforzare il militarismo. O, se si vuole, in contesto positivo, di verità, l’antimateria per venire a capo della materia. Ci vuole misura e costanza nell’azione repressiva, e pene scoraggianti. Mentre la professione di fede è rischiosa, a rischio boomerang. Tanto più che salire sul carro anti- deve essere concesso a tutti – perché non al figlio di Riina, argomenta il figlio mafioso di Riina?
Si dice dai tempi di Crasso per dire che la pratica c’era anche prima – non se ne tiene il pedigree (tutta la vita pubblica a Roma, anche quella virtuosa dell’età repubblicana, si svolgeva nella corruzione, in termini odierni). 

Indefinitezza - È la spia e la radice della decadenza, delle epoche depressive - la definitezza o definizione essendo la radice e il motore del mondo regolato (accumulatore, costruttivo). È indefinito oggi, relativo, anche il concetto di umano – di essenza, di esistenza: è il segno più chiaro dell’incapacità o non volontà di ideare, progettare, fare, costruire. Tutto è vago e confuso, nelle arti e le poetiche, limitate al merchandising, nella riflessione, in politica, in economia, nelle relazioni internazionali, che più spesso sono la guerra – la guerra per la guerra, senza un piano e un calcolo che la guerra comunemente comporta, della guerra per la pace. Si ripropone l’urfascismo, o il fascismo eterno, che è tutto e nulla. Lo stesso il tutto mafia, o il Sud è mafia, Roma corruzione, lo Stato fascista “per definizione”.
Per spiegare Trump, il suo populismo, la “New York Review of Books” rispolvera un “Ur-fascsim”, un saggio di Umberto Eco, pubblicato il 22 giugno 1995, di cui evidenzia nel sommarietto: “”L’Ur-fascismo cresce e ambisce al consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo richiamo di un movimento fascista o prematuramente fascista è un richiamo contro gli intrusi”. Che sembra molto – il fascista “prematuro” è Trump – ma poi non è niente, niente di specifico.
Il Sud è mafia è concetto disgraziatamente di Sciascia. Che però lo usava in un contesto, e secondo un criterio di giudizio, anche severi. Scomparsi o indefiniti i quali, è un’arma buona a tutto, anche ai mafiosi.
Lo stesso la corruzione. Qui il fatto è macroscopico: sono i luoghi, gli ambienti d’affari e le persone più implicate nell’affarismo e la corruzione, anche tra i padroni dei media, a promuovere crociate e denunciare corrotti. Per esempio – a Roma oggi – concentrandole su un ex carcerato cooptato in una cooperativa di ex carcerati, che seppe fare crescere come crescono tutte le cooperative sociali, il cosiddetto “terzo settore” per la gestione della spesa pubblica a fini sociali, col voto di scambio e le bustarelle, ma per appalti di milioni o meno. Che si fa apparire molto, anzi tutto, mentre il “terzo settore” impegna almeno 70 miliardi di euro, l’anno, e la corruzione in Italia si aggira sui 100 miliardi, l’anno – la stima più probabile tra le tante inventate, basata sul calcolo della Corte dei Conti, che valuta nel 40 per cento l’aggravio per opere, forniture e servizi pubblici.

Populismo – Si definisce variamente, ma al fondo per una connotazione semplice, inerente alla stessa parola: ciò che incontra il favore del popolo, cioè delle masse, per un  impeto irriflesso, non valutato criticamente né ponderato. È stato populismo il “jingoismo”, l’imperialismo popolare, dei lavoratori in particolare, al tempo della regina Vittoria e dell’impero britannico, come lo è in genere ogni svalutazione dell’Altro – l’esterno, il remoto, il diverso. È stata populismo la bellicosità ingenerata in tutte le popolazioni europee alla vigilia della prima ecatombe, della prima guerra mondiale.
Come fenomeno emotivo e acritico si penserebbe legata a una complessità sociale primitiva e povera: poco alfabetizzata, poco affluente. Invece è ritornato in Europa, trent’anni fa, nei due paesi più ricchi, Svizzera e Norvegia, e di tradizione democratica consolidata. Quindi, vent’anni fa, in Francia, paese-guida della cultura continentale. Ora è addirittura maggioritario in Austria, paese che pure lo ha sperimentato con grave danno come hitlerismo.

Lo stesso si può dire in Italia. Dove si coagula attorno a movimenti nati e cresciuti col suo linguaggio, la Lega e i 5 Stelle, eredi del vecchio Uomo Qualunque. Ma su una solida base di rifiuto costruita e cementata dalla borghesia che conta. Quella degli affari (“Milano”), e quella intellettuale ex Pci, giudici e giornalisti. Che hanno fatto a gara per demolire ogni assetto politico e ogni riflessione politica. La politica annegando genericamente nella corruzione, con la “questione morale”, e le istituzioni nella “casta”.  Si può discutere se gli affari possano agitare una questione morale, ma è un fatto. “Milano” è peraltro Milano, la città della stampa e dell’editoria, che ha specializzato da un quarto di secolo e oltre nella guerra all’autonomia del politico. Nell’annientamento della mediazione politica, riflessa, riflessiva.  


Ricerca – Va avanti come una storia poliziesca. È l’ipotesi di Eco (“Confessions of a young novelist”), della ricerca scientifica come “trucco narrativo”. Da lui attribuita a un controrelatore alla sua tesi di laure, “Il problema estetico in Tommaso d’Aquino”: “Secondo lui, avevo raccontato la storia della mia ricerca come se si fosse trattato di un romanzo poliziesco” - secondo Vattimo, più giovane compagno di studi di Eco a Torino, era stata la reazione del suo stesso relatore, Pareyson. Eco dice che l’esaminatore gli oppose questa considerazione “nei termini più amichevoli”, e subito dopo usa un ambiguo: “Mi suggerì l’idea fondamentale che ogni ricerca deve essere «narrata» in questo modo. Ogni opera scientifica deve’essere una specie di inchiesta penale”.

Selezione – È inevitabilmente gerarchica, potendo essere solo del “più adatto” (H.Spencer e poi lo stesso Darwin a partire dalla quinta edizione, 1871, dell’“Origine della specie”), selettiva appunto. Ma questo è un fondamento dell’umanesimo, e non il suo debasement, con ogni evidenza. E lo è anche, sebbene più sottile, del creazionismo – della storia come freccia, del Regno.

Semiologia – Una trappola più che una scienza, la scomposizione dei segni?Si legge Eco semiologista con una insistente, benché indistinta, impressione di una sua, forse non inconscia, non credibilità. Come di un esercizio di bravura, senza peraltro scopo, e senza verità.

Tolleranza – È intessuta di egualitarismo – ne è il fondamento. Non è una concessione, è un fatto e un diritto.
È l’uguaglianza nella diversità (complessità) – ne è l’ordito e il filo.

È sempre in cantiere, non  mai acquisita. Seppure sia codificata.
Di permanente ha che è un fatto pedagogico: l’intolleranza più pericolosa non è quella dottrinaria, è quella che viene da pulsioni elementari, incontrollate. Che possono innestarsi su una dottrina, ma sempre la travalicano.

La caccia alle streghe è della chiesa come dei laici. Con la differenza che per la chiesa è un fatto storico e abiurato, altrove viene a buon diritto.

Curiosa la tolleranza verso i sistemi intolleranti. Per esempio i regimi maschilisti di molte legislazioni, cui ora si vorrebbe dare cittadinanza in un quadro di tolleranza. Patriarcali anche. Come segno di pluralismo in normative egualitarie.

zeulig@antiit.eu 

Dignità delle microvite, e del Sud

Anche Maigret affronta le “microvite” umane di cui Simenon è il Balzac nei “romanzi duri”, di matrimoni sterili, avarizie, bruttezza, parentele litigiose. Di destini sordidi, senza mai una luce. In uno degli ultimi racconti della serie, 1970 – il quart’ultimo, due anni dopo Simenon rinuncerà a scrivere. Con la bonomia e la pietà del personaggio, invece del solito occhio crudele. Una riconciliazione con la vita?
Impaginato dall’editore opportunamente in una raccolta “Maigret va al Sud” (in  “offerta vintage”: i tre Maigret di “Maigret va al Sud”, più un altro libro a scelta, € 15): Maigret-Simenon si riconcilia anche col Sud. Perfino le mafie hanno messo giudizio, giù al Sud – al Sud della Francia – dove imperversavano.
Georges Simenon, La pazza di Maigret, Adelphi, pp. 156 € 10