Giuseppe Leuzzi
Nord e Sud sono divisi nettamente e per
sempre dalla Riforma. Peter Davidson, lo studioso scozzese che ha repertoriato
tutte le “idee del Nord” (“The Idea of North”), lo dà per scontato, p. 43.: “La
mappa delle relazioni fra Nord e Sud fu catastroficamente ridisegnata con la
Riforma”, e dall’una e dall’altra parte “leggende nuovamente fiorirono su posti
raramente visitati”.
Ma è un pregiudizio del Nord.
Muti
pellegrino
“Ogni anno, in settembre, prima
di iniziare la nuova stagione di concerti e opere a Chicago e in giro per il
mondo, sento il bisogno irrefrenabile di assorbire nuove energie dalle antiche
radici delle due regioni da cui provengo: la Campania e la Puglia”, scrive il
maestro Riccardo Muti sul “Corriere della sera”, iniziando a raccontare di come
si sia trovato, turista fra i tanti una domenica a entrata gratuita, a suonare
il pianoforte al museo di Capodimonte: “Molfetta, le grandi Cattedrali
romaniche, Castel del Monte, misterioso maniero di Federico II, Napoli, mia
città natale, e molti altri luoghi del grande Sud, a turno, ridanno vigore e
entusiasmo alla mia attività di «musicista pellegrino”.
È “pellegrina”
al Sud anche la musica.
Non c’è questa
mancanza delle radici altrove: il Sud, sradicato, ne ha forte la nostalgia.
Il
notabile Camilleri
Camilleri è nei lunghissimi selfie che
si auto dedica, o in una con Saverio Lodato, una reviviscenza del – e un
monumento al - notabilato, che il Sud ama, ma purtroppo non lo salva, e forse
lo perde.
Camilleri è un notabile fluente narratore
dell’era dei notabili. Meglio se di notabili. Non c’è altro nei suoi ricordi,
sparsi per tante sue opere, e addensati in “La linea della palma”. Di quando
ancora c’era nei paesi il circolo, di professionisti borghesi dabbene,
avvocati, dottori, baroni, occasionalmente geometri ma impresari, nullafacenti,
con l’unghia del mignolo lunga - segno del non lavoratore. Residuo e
scimmiottamento del circolo dei nobili, con la sola occupazione di giocare a
carte, nelle pause degli interminabili racconti e sceneggiati, in chiave sempre
“boccaccesca” (buffonesca). I personaggi sono maschere, inalterabili, di loquela
macchiettistica, come a un teatrino dopolavoristico, alla buona, tra parenti e
sodali riconoscenti..
Le narrazioni del circolo, nella “Targa”
e altrove, gli vengono gradevolissime. E gli apprezzamenti, mentre si professa
in continuazione comunista, di emeriti fascisti, nonché di molteplici
democristiani, intelligenti, colti, timorati di Dio, e se uomini di potere
allora a fin di bene. Così era nel vecchio notabilato: galantuomo non mangia
galantuomo. E più nel “fascistone”: il notabile nella sua ultima espressione,
che non necessariamente doveva essere stato mussoliniano, ma sapeva risolvere
tutto “tra amici” (questo è il carattere di cui Sciascia, e anche Camilleri,
danno credito alla “vecchia mafia”, con più di una verosimiglianza: il mafioso
tende a imitare il notabile, l’uomo di fiducia che non si pone domande). .
Nello stessa impalcatura
socio-psicologica Camilleri proietta la sua biografia politica. Da sempre si vuole
da sempre comunista, fin da ragazzo e sotto il fascismo - come gli ha rivelato
il Vescovo, di cui era assiduo in quanto chierichetto. S’inventa anche una giornata
con Vittorini muto, che era andato a trovare all’improvviso a Milano, nel 1948
o all’incirca, il giorno in cui fu scomunicato da Togliatti e dal Pci, che se
lo prede sottobraccio e cammina con lui all’impazzata per Milano, come ripassasse
quella che sarà “Conversazione in Sicilia”. Ma le prime poesie gliele pubblica
Alba De Cespedes su “Mercurio”, e i primi racconti Aldo Garosci su “L’Italia
socialista”.
Grande è nella sua memorialistica il
numero dei fascistelli. Necessariamente, trattandosi di compagni d’infanzia e
di scuola. Ma la sua vasta memorialistica dei democristiani eccellenti
comprende anche Scelba e Andreotti. Mentre non ricorre un solo comunista. Benché
stia sempre all’erta, all’ultimo messaggio politicamente corretto, cioè del Partito.
Anche dopo che il Partito è morto, fino alla demolizione di Ciampi, il miglior
presidente della Seconda Repubblica (uno scivolone?). Compromissorio. La sezione comunista viene aperta a Porto
Empedocle sotto l’amministrazione alleata per i buoni uffici del vescovo. Anche
sul piano dei rapporti con la cultura dell’isola, da cui a lungo Camilleri si è
estraniato: il rapporto non facile con Sciascia diventa una galleria di
aneddoti mortali all’Immortale – il conformismo, questo di Camilleri non
piaceva a Sciascia.
Notabile è anche il gusto dell’aneddoto.
Tutto sempre speciale, per la verve narrativa. Per il taglio dell’aneddoto, bonario e comunque, in qualche modo, condivisibile
Per i personaggi e le storie, tutto sempre
speciale, anche se irrilevante: comico, tragico, commovente, repulsivo.
La
mafia insorgenza democratica
Si legge e si vede nei “Beati Paoli”, il
romanzone della malavita siciliana del Sette-Ottocento, di un secolo fa: le
mafie sono un “prodotto” popolare. A mano a mano che la società si “sfarina” le
mafie si allargano, in quell’indistinto popolare o “democratico” molto amato
dai Carabinieri e dalla cultura un tempo comunista, che è il loro brodo di
coltura.
Oggi separare il crimine è molto
difficile - impossibile praticamente. La separazione tra “noi e loro”che fino a
non molti decenni fa isolava le mafie e le teneva in soggezione, sull’esempio
del Montalbano dei film, non è più attiva, dopo decenni d’incuria da parte dell’apparato
repressivo, e quindi di una legittimazione – del bisogno, della povertà, della
giustizia sociale. Le mafie sono mezzo imborghesite, si intrufolano, si mettono
di traverso, by-passano, attraverso la pubblicistica e lo stesso apparato repressivo,
soprattutto occhiuto col malaffare o il disordine “civile”. Mentre una volta
tramavano a distanza, e sempre nel timore. Le borghesie hanno perso forza e
difesa, avendo perduto l’autostima. I mafiosi erano isolati e tenuti a distanza,
sono ora ovunque, nelle squadre di calcio, nella banda, nelle feste, al bar e
in pizzeria, e fin nelle processioni. ,
Non è un fatto “di sangue”, di dna. Non è
un fatto di bisogno. Non è un progetto politico. Che cos’è la mafia?
È un “fatto” politico, un esito: una
deriva della democrazia. Si arriva alla mafia nella discesa della
partecipazione popolare al potere, quando alcuni prendono la scorciatoia della
violenza. Perché non c’è altrove? Perché altrove “gli altri”, borghesi, nobili,
“feudatari”, imprenditori (industriali, commercianti), grandi e piccoli, professionisti,
artigiani, lavoratori, non abdicano. Il cosiddetto ceto medio, comunque
intermedio, in qualche modo si difende. Obbliga lo Stato a difenderlo. Non sceglie
le professioni, lo Stato (Scuola, Interno e Giustizia), l’emigrazione,
La deriva democratica è il caso di
Napoli, vistosamente preda del malaffare dopo essere stata “nobilissima”, e più
della Sicilia. Più delicato, ma più recente e percorribile, per il cedimento
della nascente borghesia, è il caso della Calabria. Un approccio repubblicano
meditato e produttivo fu spazzato via cinquant’anni fa da quella che poi
sarebbe stata la ‘ndrangheta. In assenza di una qualsiasi salvaguardia
dell’apparato repressivo, i figli mollarono tranquillamente il “territorio”,
per le professioni, lo Stato (Scuola, Interno, Giustizia) e l’emigrazione. Lasciarono
ai nuovi ceti, che di deriva e in deriva approdano alla mafia – si è arrivati
ora alla “formazione” o adescamento adolescenziale: si cresce violenti. In
parallelo è andato il degrado dei servizi, cemento della comunità: delle
professioni (medico, avvocato, tecnico), e dei mestieri (falegname,
imbianchino, muratore, idraulico, carpentiere, potatore…). Della qualità e
responsabilità. E, peggio, dell’impegno – la cosiddetta testardaggine.
In Sicilia la nobiltà - il cosiddetto
feudalesimo – è stata soppiantata dalla classe verghiana della “roba”, ma nel senso deteriore. Corleone,
importante centro vitivinicolo e pecuario, con un assetto sociale diversificato
e stabile, dopo gli “infeudamenti” del Seicento del vice-regno di Napoli coi
soliti banchieri genovesi, che colpì anche la città (i corleonesi a un certo
punto “si riacquistarono”), è stata lasciata nel dopoguerra ai mafiosi (Liggio,
Navarra, Riina…), dall’assassinio impunito di Placido Rizzotto in poi, 1948 -
già prima del 18 aprile. Castelvetrano, da un paio di decenni feudo di Matteo Messina
Denaro e del suo compare Tonino Vaccarino,
ha inventato e produce l’uva Italia, e ospita una “cappella Sistina” - la
chiesa di san Domenico ricca di affreschi e di statue, in straordinaria
scenografia.
Virgilio Titone, saggista di
Castelvetrano, autore di almeno due opere pregevoli in tema, “Considerazioni
sulla mafia”, 1957, e “Storia, mafia e costume in Sicilia”, 1964, si arrovella
sull’interrogativo. Ma, irato, giunge alla conclusione che la mafia è il sangue
marcio. Un’assurdità. Da tutti i punti di vista, anche del polemista.
leuzzi@antiit.eu