Marcello
Moretti, “il grandissimo Arlecchino strehleriano”, ricorda Camilleri in
“Segnali di fumo”, accettò di recitare in uno spettacolo messo su dallo stesso
Camilleri, un “monodramma”, un monologo. Benché diffidato da Grassi e Strehler,
direttore e direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano, al quale l’attore
era legato. “Fu un trionfo”, dice Camilleri. Quando Moretti morì, il Piccolo
gli dedicò un volume, con tutte le sue rappresentazioni, “tutte, meno quella”.
Milano non perdona.
È
Napoli che imita Saviano, ora con la paranza dei bambini - dopo Scampia, e dopo
Castelvolturno?
O
sono i Carabinieri che, leggendo Saviano, scoprono il crimine?
Che
i Carabinieri leggano, anche solo Saviano, è però una buona cosa.
“Muti alla Scala: torno a casa”, “La Scala,
Muti e il modello Milano”, “La Scala riabbraccia Riccardo Muti”. Tripudi e clarine sul ritorno a Milano del maestro dopo dodici anni di confino. Ma non si dice
che Muti fu cacciato dall’orchestra milanese, dal sindacalismo delle “pause”,
caffè, pipì, etc. - patrocinato al solito dalla Cgil. L’accumulazione si fa con
l’ipocrisia? Bisogna credere fortemente in se stessi, anzi proporsi (ahi,
Torno!) come modelli.
Il Gran Ritorno Muti ha fatto con la “sua” orchestra,
la Chicago Symphony. Organizzato dal “Corriere della sera” per lanciare “Muti alla
Scala”, collana di venti opere in dvd. Preparato da giugno, con una mostra dall’analogo
titolo.
Italia terra dei
tori
Erano italici per i Greci, era Italia, la parte tra
Calabria e Salento sullo Jonio. E non si sa perché. Wikipedia propone una
soluzione allettante, se non vera, legata al toro, la cui onomastica, se non
più i simbolismi, s’incontra molto in Calabria:
“Tra le proposte che motivano il nome al di
là di una vera e propria analisi linguistica può essere ricordata quella di Domenico Romanelli (“Antica topografia istorica
del Regno di Napoli”,
Napoli 1815), il quale, basandosi
sull’antica ma mai pienamente accettata ipotesi che esso stesse in relazione
con i tori, lo
spiegava con il fatto che coloro che provenivano dal mare da ovest vedessero
sagome taurine nelle penisole Brezia e Japigia
.
“Nei tempi antichi le terre dell'attuale Calabria erano
conosciute come Italia. I
Greci indicarono l'origine del nome in Ouitoulía, dal vocabolo “Italòi” (plurale di Italós), termine con il quale i coloni achei che giunsero nelle
terre dell’attuale Calabria ambiguamente designavano sia i Vituli, una
popolazione che abitava le terre a sud dell’istmo di Catanzaro, il cui etnonimo era etimologicamente relato al vocabolo indicante il
toro, animale sacro ai Vituli e da loro divinizzato, che i tori stessi: il
greco italós infatti è di
derivazione italica, specificamente deriva dalla osco-umbra uitlu, toro appunto (vedasi il latino uitellus, forma con suffisso diminutivo che significa vitello). Ouitoulía venne così a
significare “terra dei Vituli” o “terra dei tori”. A supporto di questa
ipotesi, si ricorda che nella parte meridionale della penisola calabrese
esistono toponimi di origine magnogreca (alcuni tradotti in latino dai Normanni)
probabilmente facenti capo alla più antica etimologia di terra dei tori (dei bovini): Bova, Bovalino, Taurianova, Gioia Tauro,
ecc.”.
Si dà come un salmo “Conosce il toro
colui che lo possiede”. Ma tra i “Salmi” non c’è – né in altro luogo della
Bibbia. Si trova il toro anche dove non c’è? E perché non tra i Micenei, che
furono in “Italia” prima dei Greci?
Sicilia
La
“Sicilia del dopo Pirandello” è “la spina dorsale”del Novecento letterario:
Borgese, Vittorini, Brancati, Pizzuto, Lampedusa, Sciascia, D’Arrigo, Bonaviri,
Bufalino e Consolo (nonché Mazzaglia, Savarese, Addamo, Perriera, o i poeti
Quasimodo, Cattafi, Piccolo, Buttitta,Vann’Antò, nonché Rosso di San
Secondo)”- W. Pedullà. “Il mondo visto
da sotto”, 94. E ce ne sono altri.
Si
tiene a Messina, al museo regionale della città, una mostra “Mediterraneo luoghi e miti”,
ricca di reperti. Li colleziona il Mart di Rovereto, che ha organizzato la
mostra.
Il
museo regionale di Messina, in una villetta di periferia, una ex filanda,
espone alcuni Antonello e Caravaggio, residuati della collezione Ruffo della
Scaletta. Che nessuno conosce, i Ruffo, della Scaletta e non, gli Antonello e i
Caravaggio.
I Ruffo furono
grandi collezionisti: lasciarono a Scilla oltre
1.500 tele. Con opere di Raffaello, Tiziano, Veronese, Tintoretto, Rubens,
Guido Reni, Mattia Preti, Luca Giordano, Orazio Gentileschi. La collezione fu
avviata dal principe Tiberio. Che alla morte lasciò al figlio Guglielmo 650
tele. Alla morte di Guglielmo, nel 1748, la collezione era salita a 1.500 tele.
Aveva cominciato don Antonio Ruffo di Bagnara
principe di Scaletta – dal nome di un feudo messinese della moglie. Committente
tra i tanti di Rembrandt e Artemisia Gentileschi, che protesse alla triste
fine. Collezionista di Rubens, Breugel, Mattia Preti, Poussin, Borgonone,
Salvator Rosa.
Guy
Verhofstadt, il capo dei liberali
europei, i più europeisti di tutti, gli eletti di Grillo li voleva, eccome, nel
suo gruppo parlamentare. Pur conoscendoli bene, da italianista praticante, per
antieuropeisti. Per avere più poltrone di comando nel Parlamento europeo, e più
soldi. Non sarà Verhofstadt un alias siciliano?
Il presidente Crocetta, ultimo nella graduatoria di
merito e popolarità del “Sole 24 Ore” fra tutti i presidenti di Regioni, non si
arrende. Non sa che fare, ma un indiano, Mahesh
Panchavaktra, gli propone un aeroporto nuovo e lui ci si butta.
Panchavaktra si occupa di molte cose, tra l’altro di
infrastrutture: le studia, le consiglia, le progetta anche, a un costo. Per
l’aeroporto nuovo ci vogliono 300 milioni. Ma Crocetta non si fa il conto,
pensa che l’indiano provvederà – non è un magnate? La Sicilia, cosmopolita,
poliglotta e tutto, è sempre un’isola.
Camilleri ha (“Segnali di fumo”) un “imprenditore
quarantacinquenne” che appena poteva si catapultava su un’isola attorniata da
“squali ferocissimi”, si tuffava con bombole e macchina da presa, e “in breve
tempo riusciva a familiarizzare”: gli squali
“ben resto diventavano mansueti compagni di gioco”. Un domatore di
squali siciliano a tempo perso, un eccentrico, un barone di Münchhausen?
Camilleri assicura la storia vera. Ma è verosimile. Che sia vera oppure
inventata.
“Un siciliano non scriverebbe mai una lettera alla
madre. Questa è sempre presente, anche se fisicamente è lontana” – Walter
Pedullà, che ha studiato a Messina, ed è stato amico di eccellenti siciliani,
D’Arrigo, Bonaviri, Vittorini, opina per la società matriarcale? Ci sarebbero
problemi per la mafia, tutta maschile. O non è una traccia feconda?
È
assolutista. Quando si chiese “che fare?”, Sciascia si rispose che la Sicilia è
irredimibile. In effetti, da quando Sciascia è morto, non sono trent’anni,
paesi piagati peggio della Sicilia si sono redenti, il Sud Africa per dire. La
Corea del Sud negli stessi anni si è fatta uno dei paesi più efficienti e
ricchi al mondo. Per non dire della Cina. E dunque ha ragione Sciascia?
La strada che
divide
C’è
in Calabria, nella parte più dotata e depressa, la strada con più curve
d’Italia e forse del mondo, la ex SS 112 Bo-Ba, o Ba-Bo - i due terminali sono
Bagnara sul Tirreno e Bovalino sullo Jonio: un migliaio di curve tornanti per
61 km. Spesso non percorribili per intero da circa settant’anni, per frane o
smottamenti, ma questo non vuol dire. Ora declassata a SP 2, ma pur sempre la
seconda arteria della provincia di Reggio Calabria.
È una strada che divide e non unisce, anche questo è un record. Non tanto
agevola il contatto fra il Tirreno e lo Jonio, per il quale era stata disegnata
nel 1928, quanto lo scoraggia. In tutti i sensi: molto meglio fare le strade
delle comunità di montagna e interpoderali dello Zillastro, si arriva prima e
si gode la natura - i boschi, le luci i silenzi – oppure quella tradizionale
del piano della Lìmina, tra Cinquefrondi e Mammola, altro paesaggio
straordinario, alpestre. Fino alla superstrada
Rosarno-Gioiosa negli anni 1980, Jonio e Tirreno sono stati nella provincia di
Reggio Calabria profondamente estranei.
La
Bovalino-Bagnara serve una dozzina di paesi dell’Aspromonte ma non gli facilita
niente. Soprattutto non ai centri più interni, Delianuova, Scido, Santa
Cristina, sul versante tirrenico. I cui abitanti trovano difficile collegarsi
con Bagnara, e quindi col capoluogo, dove pure devono recarsi di frequente. E
per accedere allo Jonio devono correre giù nell’altro senso, verso il Tirreno,
a uno degli accessi alla strada veloce Rosarno-Gioiosa, che s’incunea con una
breve galleria tra l’Aspromonte e le Serre. Si può fare, partendo da casa, in
un’ora. La Bagnara-Bovalino, benché a metà percorso, ne richiede due, nel
migliore dei casi . Molto dipende dai mezzi pesanti cui capita prima o poi di doversi
accodare senza possibilità di sorpasso, e dalle frane con deviazione. Specie
dopo un terremoto, anche minimo, o un temporale, per fragilità costituzionale
intervenuta e mai sanata con l’alluvione del 1951.
Dal
1998 il rifacimento della SP 2 figura in primo piano alla Provincia di Reggio
Calabria. C’è un progetto esecutivo del tracciato, con gallerie e ponti. Ci
sono state varie prime pietre dei lavori. Ci sono anche i nomi dei manufatti,
il ponte strallato Lizzati, il viadotto Giovanni Paolo II. Ma non ci sono i
manufatti. Né i lavori per avviarli.
Perché
la nuova strada non si fa? Perché la vecchia basta e avanza, anzi è un paradiso
per gli appaltatori: è un cantiere permanente. Rifarla con criteri aggiornati
costerebbe probabilmente molto meno, ammortizzando la spesa in, poniamo,
trent’anni. Ma, poi, gli appalti? Non è a questo che servono le strade?
Si
dice: è la Calabria. Ma a Cosenza il riattraversamento comodo, ed ecologico,
della Sila l’hanno progettato e realizzato trent’anni fa. C’è Sud e Sud.
leuzzi@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento