“L’incendio, con feroci mandibole,
divora il campo” è cosa detta da un letterato, per quanto amico, al caffè? Oppure
da un cinese, della cultura dei draghi? Oppure da Eschilo, che la mette in
bocca a Prometeo, “titano imprigionato”, rivolta “a Oceano, anziano gentiluomo
venuto a visitare la sua disgrazia su un carro alato”. Un libro sulle metafore,
indigesto - e del resto della metafora sappiamo tutto da Aristotele, che Borges trascura, volendone fare un caso. Applicandovisi, però, l’esemplificazione è magistrale del legame (di
cui non si può fare a meno) metafora-contesto.
Con qualche curiosità. Borges già a
27-28 anni narratore di se stesso è la prima. Delle sue letture, di uno che ha letto
tutti i libri – salvando cinque o sei autori: Quevedo, Carlyle, Schopehanuer,
Unamuno, Dickens, De Quincey: della “fruizione letteraria” Borges è analista
retrospettivo, censore, ordinatore,inventore, già in gioventù. L’altra è che è già il narratore e
il regista teatrale della filologia, che sarà il suo trademark. Anche se concettoso più che gioviale e ironico: sono
scritti irsuti queste sue prime prose, su giornali e riviste, e in conferenza.
Molti sono contro il gongorismo, il
preziosismo, il manierismo, che era una bestia dei suoi tempi, gli altrimenti
celebrati anni Venti. “Il linguaggio è come la luna e ha il suo emisfero
d’ombra”-
Jorge Luis Borges, L’idioma degli argentini, Adelphi, pp. 187 € 14
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