sabato 21 gennaio 2017

Il mondo com'è (291)

astolfo

Africa – Il colonialismo è pessimo, sotto tutti gli aspetti – anche economico: è uno sfruttamento. Ma allora quanto peggio debbono essere state le indipendenza, se nel mezzo secolo post-coloniale hanno impoverito e non arricchito l’Africa? Impoverito in senso relativo, rispetto al resto del mondo.
L’Organizzazione per l’Unità Africana si rinnova in questi giorni con una constatazione di fallimento, seppure fra intrighi politici da grande potenza – attorno alla seconda o terza moglie del sudafricano Zuma…. Tutta l’Africa, compreso quindi il Nord Africa col petrolio e il gas, un miliardo e trecento milioni di persone, ha oggi un pil continentale quasi pari a quello della sola Italia, 2.282 miliardi di dollari contro 2.200. Malgrado il petrolio e il gas, e le tante altre ricchezze minerarie, fino ai diamanti: sono in Africa il 70 per cento delle ricchezze minerarie mondiali (per questo da tempo il continente è assiduamente frequentato dalla Cina).
Il dato peggiora molto per l’Africa Nera, a sud del Sahara. E peggiora anche in termini relativi, di prodotto pro capite, rispetto al resto del mondo, e tra il 1970 e il 2015. Nel 1970 il pil pro capite in Africa era di 296 dollari, un terzo di quello medio mondiale, 924 dollari. Nel 2015 il pil pro capite è stato in Africa di 1.927 dollari, un quinto di quello mondiale, 10.098 dollari. Nel 1970 la quota dell’Africa nel pil mondiale era il 3,2 per cento, nel 2015 non è migliorata, e anzi si è ridotta, al 3,1.
I limiti sono quelli di sempre, peggiorati: monoculture (caffè, cacao, etc.: il 90 per cento degli scambi dell’Africa si fa con paesi extra-africani) e esportazioni grezze (il 70 per cento africano delle riserve minerarie incide sul pil mondiale per l’1 per cento appena, quello che l’Africa esporta intensivamente sono le persone, in massa). Aggravati da un’involuzione politica disarmante: una popolazione giovane, con un’età media di 19 anni, è governata da utrasessantenni, militari più spesso, e politici che una volta al potere non lo mollano mai – il presidente (ex) comunista dell’Angola Dos Santos è al potere da quasi quarant’anni, e ora vuole la successione per una figlia. Metà della popolazione, 620 milioni, non ha ancora l’elettricità. Ha il telefonino, un miliardo di cellulari risultano in attività, ma perché i pochi che ce l’hanno devono usare molte schede per telefonare.
Sotto il Sahara il reddito è praticamente inesistente in termini monetari: poco meno della metà della popolazione vive con due euro al giorno. Gravata da fenomeni asociali e criminali prima sconosciuti, specie nell’Africa Occidentale, attorno al golfo di Guinea: il traffico di droghe, il traffico di essere umani. La prostituzione da alcuni decenni, in tutte le piazze europee, e ora l’elemosina elevata a business – di mendicanti giovani, importati a presidiare chiese, bar, edicole, teatri, piazze, e ogni angolo delle città d’Europa. Effetto, si vorrebbe, della fame. Che però non c’è. Mentre c’è l’avidità, incontestata.

Destra-sinistra – Il populismo completa e fissa lo scambio: la destra, nazionalista e razzista, che inventa e distribuisce quello che la sinistra più non fa, lavoro e reddito, irretita nell’ideologia liberista, dell’austerità e del guadagno dei ricchi, di cui per farsi perdonare si offre araldo.  Slavoj Žižek ha portato al congresso romano sul comunismo, C17, il caso della Polonia:  il partito Diritto e Giustizia di Jaroslaw Kaczynski al governo “nell’ultimo ano ha abbassato l’età pensionabile, avviato trasferimenti sociali, per esempio alle madri, reso più accessibili istruzione e cure mediche”. Negli Usa “Trump promette quel che nessuno, a sinistra, si sognerebbe di proporre: mille miliardi d dollari di lavori pubblici per migliorare l’occupazione, e così via. Alla sinistra, dice il filosofo, resta l’arroganza - ma giusto alla televisione, come parlarsi allo specchio.  


In Italia Grillo si gonfia dei voti degli ex Pci. Per i motivi che hanno portato il Pci alla dissoluzione, e i suoi militanti allo sbando. La sfiducia verso la politica, bandita da Berlinguer al culmine della sua lunga catena di errori con la crociata anti-partiti al coperto di una comoda “questione morale”. E dai suoi esecutori testamentari con la crociata contro le istituzioni, al coperto della ridicola e feroce polemica contro la “casta”. 

Eurasia – Si fa la pace in Siria, si tenta, a Astana, capitale del Kazakistan, prossima Expo dopo la celebrata Milano, autoproclamata “capitale” dell’Eurasia. In colloqui tra il governo di Damasco e i suoi oppositori patrocinati da Iran, Russia e Turchia. Dopo una guerra civile di sei anni che ha visto al fronte l’Occidente, se non l’Europa. Ora, in questo primo approccio pratico dell’Eurasia, l’Europa è rappresentata dalla Russia – e dalla Turchia?

Vittorio Strada tesse l’elogio di Aleksandr Dugin, da sinistra, la coscienza di una certa sinistra, domenica sul “Robinson” di “la Repubblica”, intervistato da Antonio Gnoli: “Più interessante (di Limonov, n.d.r.) oggi è un personaggio come Aleksandr Dugin, filosofo e ideologo”. “Si è parlato di lui come di un autentico fascista”. “È stato considerato tale anche perché aveva tradotto Evola. È una figura centrale per comprendere la nuova ideologia di Stato. Il suo pensiero circola tra le élite russe ed è influente tra i militari”.
Dugin è uno dei pilastri in Italia della rivista “Eurasia”, e delle Edizioni del Veltro, che editano la rivista e ne pubblicano le opere. La più nota, “Fondamenti di geopolitica”, lega la nozione a un movimento di russi emigrati dopo il 1917, e alla minaccia che la globalizzazione rappresenta per tutte le diversità, nazionali, storiche, culturali. Tradizionalista, cultore e seguace di Guénon e Jung, antiliberista e per questo antiamericano, fu uno dei capi del Fronte di Salvezza Nazionale venticinque anni fa contro l’ultraliberismo di Boris Yeltsin, e collaborò al programma del nuovo partito Comunista di Ghennadi Zjuganov. Ma presto si staccò dal Fronte, per fondare nel 1994 un partito Nazional-Bolscevico, con Eduard Limonov. Al quale qualche anno dopo lo lascerà. Sulla base di un manifesto, “La rivoluzione conservatrice”, pubblicato nel 1994, che fa proprie le posizioni  della “rivoluzione conservatrice” tedesca (antihitleriana) degli anni tra le due guerre.
Di dieci anni più giovane di Putin, Dugin ha la stessa formazione, all’ombra dei servizi segreti che portarono alla perestrojika, e poi tentarono di governarla. Nei primi anni Duemila ha fondato vari partiti e movimenti euroasiatici. Da qualche anno ha posto il centro della sua attività a Astana, la capitale del Kazakistan, che il dittatore Nazarbayev ha dichiarato capitale dell’Eurasia.
L’Eurasia è un’idea che è, o avrebbe dovuto essere, il pilastro della terza presidenza Putin. Il quale, subito dopo l’elezione, aveva anche indicato nel 2015 il decollo pratico dell’idea, con un’unione doganale con i paesi del Centro-Asia. In armonia con la Cina da un lato, e l’Unione Europea dall’altro. La Ue la rifiuta, e anzi ha in atto un bizzarro containment della Russia da guerra fredda. Di cui forse non misura l’assurdità: tenere Mosca impegnata in Europa.

Occidente – È piccola guerra, cronica, nella Ue. Di questo contro quello. Roland Berger argomenta sul “Corriere della sera” l’uscita dall’euro della Germania, niente di meno. Che ora sarebbe penalizzata dagli equilibrismi della Bce a favore del maggior numero di Stati aderenti, con danno appunto della Germania. E anche, aggiunge Beger con sano spirito tedesco, per avere una moneta più forte, e quindi una spinta a investire in produttività, invece di lasciarsi all’onda facile del cambio debole. Berger, un tedesco italianista se mai ce ne sono, si vuole del resto realista e non prevenuto: “Le regole di Maastricht sono state violate”, dalla loro introduzione quindici anni fa, “almeno 165 volte”.
È guerra spesso dichiarata all’interno della Nato. L’Europa si fa scudo del superiore armamento nucleare americano, ma si fa le scarpe al suo interno, anche in dispetto agli Usa. Che del resto lavorano da un venticinquennio non per tenere in pace l’Europa ma per tenerla in soggezione.
Non c’è dubbio che l’attacco anglo-francese alla Libia, organizzato da spioni di lungo corso e in quantità sul terreno, era un attacco all’Italia. Ma dov’erano allora la Nato e gli Usa? O Sarkozy che chiede agli Usa di silurare il governo italiano.
Non c’è dubbio che gli Usa hanno forzato la crisi in Ucraina. L’estromissione del presidente Yanukovich venne a poche ore dall’accordo  per nuove elezioni tra lo steso Yanukovich e i ministri degli Esteri di Germania, Francia, Polonia e Russia. Fu fatta passare per una rivoluzione popolare che invece si dileguò un momento dopo, ed era stata organizzata dai servizi occidentali, con i soldi dello speculatore Soros.
Andando a ritroso nelle crisi balcaniche, nella ex Jugoslavia e poi contro la Serbia, il ruolo degli Usa è stato dissolutore e non unificatore. La democrazia e la libera scelta dei popoli sono stati una foglia di fico, poco coprente.
Non c’è dubbio, e si sapeva all’epoca, che le primavere arabe, da cui il nuovo terrorismo ha perso l’avvio, fossero organizzate dalla Fratellanza Mussulmani, per Stati confessionali.
Si fa ora strada in Germania un sentimento anti-atlantico, e non nella destra protestataria. Che evidenzia il dato che si sottace, di un Occidente diviso e concorrenziale. “Se gli americani trovano qualcosa che possa colpire un concorrente, colpiscono”, sottolinea Berger al “Corriere della sera”, riferendosi alla Volkswagen e alla la Fiat-Chrysler. E all’Iran: “Oggi è un’area in cui noi europei potremmo legittimamente fare affari, eppure nessuna banca europea s’arrischia per timore di avere problemi o ricevere multe negli Stati Uniti. Intanto, per qualche ragione, gli hotel internazionali di Teheran sono pieni di americani”.

Trump – L’immobiliarista è stato votato dalle periferie e dalle campagne – da quella che a sinistra si sarebbe detta l’America profonda. Secondo l’“Atlas of Us presidential elections” dell’US Bureau of Census, Trump ha straperso nelle città (16,3 milioni di voti contro 27,5 per H. Clinton), ha vinto nei sobborghi urbani (32,6 contro 29,9), e stravinto nelle zone rurali e le piccole città (14 contro 7,9). Questo anche a New York: ha perso nei quartieri centrali (Manhattan, Bronx, Queens, Brooklyn, Nassau, Westchester, Rockland), ha vinto all’esterno (Staten Islan, Suffolk, Putnam, Orange).
Per grandi regioni, Trump ha perso in quella di New York, in quella della capitale Washington,  e nel New England, straperso negli stati del Pacifico, Washington, Oregon e California. Ha vinto negli Stati industriali, pareggiando nella regione di Chicago. E ha stravinto negli Appalachi, nel Nord-Ovest, nel Profondo Sud, e nel Sud-Ovest.
Ha vinto, come si sa, per il meccanismo elettorale, che filtra il voto popolare per Stati. Ma ha avuto due milioni 338 mila voti meno di Hillary Clinton.

astolfo@antiit.eu

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