Un film crepuscolare e claustrofobico.
Non diminutivo, anzi tragico, con punte di sadomasochismo, inevitabili con i
martiri e i martirî: ma nei toni grigio azzurri del purgatorio. Una professione
lenta, negativa ma costante, di fede, che però non finisce in gloria ma
nell’incubo. Se la salvezza non sia nel tradimento.
Il tema è sempre quello del cercatore di
fede: il silenzio di Dio, il male. Con la tentazione è Giuda, di allargare la possiblità
di redenzione al tradimento. Lo era già per Scorsese giovane dell’“Ultima tentazione
di Cristo”. Lo è qui, meno gridata, ma suadente. Tre giovani gesuiti partono
alla ricerca di un confratello che in missione in Giappone sarebbe finito nell’apostasia:
è il loro maestro, che non può essere un
traditore, è per questo che i tre partono, per ristabilire la verità. Finiranno
interpreti, sbirri e confidenti dei persecutori: i due superstiti dei tre I due gesuiti compaiono dopo qualche anno, dolenti
apostati, o forse solo marrani, come agenti della dogana nipponica, con
l’incarico che svolgono pignolo di scovare amuleti cristiani tra le cuciture e
gli orli di giacche e borse degli olandesi infine ammessi alla mercatura in
Giappone.
Una grande produzione. Con sbavature. Il
protagonista, Andrew Garfield, verrà fatto somigliante a un certo punto
all’immagine del Cristo, ma per due ore e passa ha quella del giocatore di
football, iperproteinico – un gesuita portoghese del Seicento? La sceneggiatura
è poco coerente. L’interprete giapponese quasi occidentalizzato, nei modi e
nell’eloquio, all’improvviso è un freddo decapitatore. Gli inquisitori urlano
in giapponese, e in italiano suonano melliflui. Ma tutto il doppiaggio è
spiazzante (si sente pure una parlata toscana), con l’estraniamento sempre di
ascoltare nella propria lingua una vicenda che si svolge nel Seicento in
Giappone – si parla poco giapponese coi sottotitoli.
È tuttavia due ore e mezza di cinema, in
qualche modo avvincente. Sarà il tema, l’occidentale perseguitato in Asia? C’è
voglia di rivedere la storia, finora compressa allo stereotipo dell’europeo
colonialista e razzista – mai, per esempio, quanto un giapponese.
Martin Scorsese, Silence
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