Mai
un presidente uscente aveva fatto tanto quanto lui, e male. In genere i presidenti non interferiscono nella transizione, Obama no. Cioè sì, strafà. Ha cacciato, senza
nessuna urgenza, trentacinque diplomatici russi. Ha annichilito la Clinton con l’ovvio,
che un altro candidato al suo posto avrebbe stravinto. Denuncia il sistema
elettorale americano. Questo con qualche merito: è la secondo volta in pochi anni che il andidato con meno voti diventa presidente, grazie ai Collegi Elettorali statali: avvenne con Bush jr, contro Al Gore, e questa volta con un divario di voti enorme, 2,8 milioni in più per Clinton. Ma Obama è acido, collerico, cattivo. Tanto che l’America
bella-e-buona si deve affannare a rimediare, mettendo in primo piano Michelle,
che male non ha fatto.
Trentacinque
espulsioni sono qualcosa che non era mai successo, nella peggiore guerra fredda.
Senza urgenza e senza motivazione – l’interferenza nella campagna elettorale è una
bufala metropolitana, demenziale (che Trump sia il presidente della Russia). Dire la Clinton un’incapace è anche facile, una che era partita con una serie di vantaggi, contro un concorrente che invece
accumulava solo handicap. Ma perché non rimediare in tempo? La sconfitta è
anche la sua.
Il
vuoto nel quale è caduta la cacciata dei russi la dice tutta sulla caduta di
Obama. Di politiche e strategia prima che di stile. L’ironia con cui la
dichiarazione di guerra è stata accolta a Mosca è anche peggiore, più
offensiva, dello sconcerto degli alleati. L’ultimo atto di una guerra insensata
che Obama ha voluto muovere, sul terreno europeo (Ucraina) e mediorientale
(Siria, petroterrorismo), vede per la prima volta una presidenza americana
senza più leadership sull’Occidente. Né morale, né di credibilità, giusto militare.
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