“Un uomo è in sé una città”, la vive, la
vivifica. È in questa chiave, del poema di William Carlos Williams, che Jim
Jarmusch ha costruito il film dal titolo omonimo - pur facendo vivere la sua
“Paterson” coi versi di un altro poeta, un contemporaneo, il newyorchese Ron
Padgett.
L’America è tema poetico, da Whitman a
Williams e Allen Ginsberg, compreso lo stesso Pound, incriminato per attività
antiamericane. Non in senso nazionalistico, come patria, ma come modo di essere.
Non, dice Williams nella sintesi che Octavio Paz fa del suo “In the American
Pgrain”, come “una realtà data una volta per tutte, bensì piuttosto qualcosa che
tra di noi costruiamo quotidianamente
con le mani, gli occhi, la mente e la bocca”. Anche come patria – è
indifferente agli espatriati, Henry James, T.S.Eliot. Ma allora come mondo, non
come confine o difesa. Del resto Williams è, a suo modo, un immigrato, figlio
di un inglese e una portoricana. Ma scelse di vivere in America, a differenza
dei suoi coetanei tra le due guerre, che si trovarono più a loro agio in
Europa, Hemingway, Pound. Oppure, negli Usa, vissero e poetarono da
cosmopoliti, E.E. Cummings, Wallace Stevens. E in America scelse di vivere in
provincia, a Rutherford, dove era nato.
Questa sua America è un idillio. In una poetica ambiziosa, la registrazione del linguaggio americano - cioè la creazione di un linguaggio: “lo sciaguattare, il vorticare\ il ritornello profano\ della parlata americana”, lo dirà Ferlinghetti in “Americus”, canto III. È la
vita di una città raccontata come la vita di un individuo, la storia di un essere
umano. Che la vive tra sogno e voglia di essere, quello che si dice l’American
Dream.
L’edizione italiana è impreziosita di un
saggio di Octavio Paz, che ne fissa con acume le coordinate: “realismo non imitativo”, “le parole sono cose
ed esse sono senso”. In una tradizione ben americana: “«Paterson» appartiene a
quel genere inventato dalla poesia nordamericana contemporanea che oscilla tra
l’«Eneide» e il «Trattato di economia politica», la «Divina Commedia» e il
giornalismo. Vaste collezioni di frammenti, delle quali l’esempio più
impressionante sono i «Cantos» di Pound. Tutti questi componimenti, posseduti
tanto dal desiderio di «parlare» la realtà americana quando di quello di
crearla, sono l’eredita di Whitman”. La peculiarità di queste “collezioni” è
che “esse non si presentano come tradizione, ma piuttosto nelle vesti di
presente esploso in direzione del futuro”. E già si guardano indietro: “Pound,
Williams e anche Crane sono l’altra
faccia di quella promessa”, continua il Nobel messicano: “Ciò che la loro
poesia ci mostra sono le rovine di quel progetto”. Grandiose, come tutte le
rovine, ma “rovine viventi del futuro”, terminali del “titanismo del futuro”.
Una risposta disuguale, quella di
Williams. Minata dalla polemica implicita col suo amico di sempre e referente
Pound, e indirettamente con Eliot, con la visione critica che i due avevano
del mondo a loro contemporaneo. Reazionaria - di un “precapitalismo feudale” dice Paz - fino
al fascismo nel caso di Pound. Williams non la condivide, ma non ne propone una
diversa, in questo poema come nelle altre composizioni. Si limita a celebrare
la vita della gente comune, senza progetti o idealità speciali. Oggi discussa,
essendo la città legata a Alexander Hamilton che la fondò, a poche miglia da Manhatan. Il padre della Costituzione
americana ora diventato una sorta di Trump ante marcia, fautore del diritto
dei ricchi ad arricchirsi, per il bene della nazione, di restrizioni all’immigrazione,
e del pugno di ferro coi vicini latini. Ma questa è storia di oggi, Williams
poteva considerare, come il resto allora dell’America, Hamilton un patriota, un padre della patria.
In una testimonianza dal vivo di Williams,
che ha incontrato un paio di volte, Paz ne dà un ritratto ammirato, per la
semplicità, l’approccio diretto. Di cui fa una sorta di divisa del poeta
americano, a fronte del poeta “latino” (francese, italiano, spagnolo) che è
invece oracolare – Paz dice “un prete: non poeta come parla, non parla come
poeta”. In quello che vuole essere un limite – Paz è pur sempre un latino, benché
cosmopolita – ma è forse l’ennesimo complimento, il poeta messicano così conclude:
“Williams non seppe vedere del suo paese il volto imperiale e demoniaco”. Si
legge però, specie qui, per quello che è: il “miglior fabbro” anteguerra, con
Wallace Stevens. Questa anomala “biografia di una città” cattura come un
romanzo d’avventure, per la narrazione sapente e per le immagini vivide.
A cura di Alfredo Rizzardi, con originale.
Che purtroppo è riprova del dualismo di Paz: la traduzione erge a
linguaggio “poetico” – raro – la koiné
dimessa, pianamente inventiva, che è la
cifra del poema, e di Williams.
William Carlos Williams, Paterson,
Oscar, pp. 454 € 14
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