“Le Baccanti” sono l’irruzione
dell’irrazionale – altrettanto indigesta che l’allitterazione. E uso celebrare l’irrazionale,
lo stesso regista lo fa nelle note di presentazione, come un allargamento a
dismisura delle possibilità espressive. Nelle forme della possessione e della
rivelazione, che sono il divino traslato nel mondo. Questa rappresentazione lo
fa in vario modo, con le immagini scenografiche, i costumi e le evoluzioni del
coro, una recitazione più spesso allusiva – di grande qualità – che non
parlata. Ma le parole dette sono quelle di Euripide, che oggi suonano in tutt’altro
verso, di un femminismo antifemminista. Anche per la regia – inavvertitamente?
Sottile, non detta, o detta in forma
vittimistica, delle donne vittime del dio, ma costante è la caratterizzazione
delle menadi insensibili, orgiastiche, distruttive. Che sono nell’originale di
Euripide, ma non come genere – sono le matrici che si ribellano al loro destino
creatore. Salvo ne accentua la carica distruttiva prospettandole superficiali
più che vittime, quasi spensierate e allegrone mangiatrici d’uomini, il dio, il
re di Tebe Penteo, il nonno Cadmo, lo stesso Tiresia, per quanto protetto dalla
divinazione e la cecità. Quello femminile si rappresenta come tutti i poteri:
se al naturale, incontrollato, allora sfrenato.
Mito – religiosità? Ma, opera laica
oppure religiosa, la sua storia è di un femminismo feroce. Ci sono tante
letture di Euripide. Una è se non volesse riaffermare con “Le Baccanti”
l’inevitabilità del sacro, o l’obbligo (“convenienza” la dice il saggio Cadmo)
per gli umani di non misconoscere la divinità. L’altra, più consistente, è se
non sia stato un laico precoce, che l’irruzione religiosa legge come distruttiva.
Oggi, in questa chiave, non si può non leggerlo come antifemminista: le
Baccanti del ventunesimo secolo, l’impellenza del sacro essendo cessata, sono
donne tutte in un modo o nell’altro, amanti, sorelle, madri, comari, distruttrici
e autodistruttrici.
Nei propositi del regista le Baccanti
agiscono in una condizione di automatismo. In una sorta di invasamento passivo,
di occupazione permanente da parte del dio. Ma sono loro ad azionare morti e
distruzione, all’orlo dell’antifemminismo. Il dio è costretto a spiegarsi all’inizio
– in questa tragedia ha la funzione di Prologo - e a scusarsi alla fine.
La distinzione-collocazione del
dionisiaco è sempre stata macchinosa. È un tentativo anche di ipostatizzare il
male in qualcosa di diverso dal dio, cui invece lo steso nome di Dioniso riporta.
E il mito non ha altra funzione che di esorcizzare, anch’esso – paure, minacce,
disgrazie. Euripide ne fa una rappresentazione forse religiosa forse laica - è
l’una e l’altra cosa – ma per uno spettatore odierno il male viene a incarnarsi
nella femminilità. Al modo non maschilista ma tragico, di una distruzione
irreparabile perché naturale.
La rappresentazione è semplice e
sontuosa insieme. Forse perché pensata per i teatri estivi all’aperto, a
Taormina, a Siracusa, dove Salvo ha operato più volte. O è la lezione di
Ronconi, di cui Salvo è stato allievo e a lungo aiuto-regista. La scena teatrale
nuda si anima con video-immagini, suoni, coreografie coinvolgenti, di forte
impatto sullo spettatore.
Daniele Salvo, Le Baccanti – Dionysos il dio nato due volte, Roma, Teatro Vascello
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