Un
ritorno alle radici. Succede a molti, per un fatto anagrafico, per i casi della
vita, prima o poi è inevitabile. Per nascita, memorie d’infanzia, fatti
straordinari. In un misto sempre di rifiuto e di nostalgia: i luoghi non ci
abbandonano, e De Luca non oppone resistenza. Il suo Campodimele è l’hortus deliciarum dei vecchi abati, e
badesse, del tempo della santità diffusa, che si beavano anche di vermi,
rospi e serpenti.
Se
dicessimo di che si bea De Luca in questi cinque racconti, il lettore potrebbe
deludersi in partenza. Le proprietà
provvidenziali dello scalogno a Toronto, Ontario, Canada. Il “Grognardo” del
titolo, tale il nome: un reducista, lui poi dalla Russia, petomane, commensale
di ogni convivio. Niente sorprese. O sì: in “Ciammotte” le lumache del titolo
sono testimoni ininteressate di un
brusco amplesso sul prato sotto “un’acquicella fina fina”. Ma niente di
trasgressivo. Segue la frittata dei tagni verdognola – senza uova (povera). E
un funerale tra i mandorli fioriti, che si popola di poesia vicina e
lontana: Libero (De Libero), il Picano (Landolfi, di Pico Farnese), “Hansel e
Gretel” filastroccata, nei profumi di una cucina sempre imbandita, anche nelle
ore morte – una celebrazione familiare.
I contorni non sono di più. Con lo
scalogno viene il “mitico” concerto che il 15 maggio 1953 alla Massey Hall di
Toronto tennero Dizzy Gillespie, Charlie Mingus, Charlie Parker, Bud Powell e
Max Roach, nientedimeno, tutti insieme all’insegna del “Salt Peanuts”, il
“Satpìnatz” del titolo - il brano che aveva creato Gillespie dieci anni prima
alla Minton’s Playhouse di New York, dove i cinque si venivano consacrando nel
be-bop. Il trionfo del “Maggio” a Pastena, festa
dendrica e sacrificale, del bovino in sostituzione dell’umano, e del divino,
col Cristo disceso dalla Croce. O il Sant’Arcangelo Michele a Vallearsa, festa
di battaglie e di vittorie la domenica dopo. I fuochi d’artificio a
Campodimele.
La scena
è la Ciociaria, che De Luca prolunga fino a Terracina, che Weber, ricorda, ha
immortalato all’opera, “Fra Diavolo ou l’Hôtellerie de Terracine”, e anzi fino a Gaeta. Ma non quella da sagra, anche se un
po’ di Nino Manfredi c’è nella prosa di De Luca, di umorismo freddo. Dello
scemo del paese, il “cannoniere” che se le fece tutte in Russia, abbiamo già
detto, narratore epico di se stesso, ripetitivo – l’epica dev’essere
ripetitiva, non ci si pensa, sempre uguale a se stessa. In “Ciammotte” fa
capolino nella valle Giulia Gonzaga, la bellezza del primo Cinquecento,
contessa Colonna di Fondi, che innamorò da Ariosto fino a Croce, oltre che
Valdès, l’eretico. Non molto si più.
Scene di vita ordinaria, insomma,
anzi il triviale del banale. Racconti poveri. Ma volutamente poveri, con un che
di sfida: non al vissuto, alla narrazione stessa. Pretesti lievi all’uzzolo
della narrazione. Un filo narrativo sottile aleggia, anche a godimento del
lettore, in qualche modo esplicito cioè, ma che De Luca non chiarisce, anzi
lascia sospeso. Al modo musicale di “Saltpìnatz”, del be-bop – o a quello
classico della “folia”, delle variazioni libere che oscurano il tema. Non
proprio una sfida, all’autore non conviene. Prove, piuttosto, esercitazioni.
Una promessa implicita. Se la sua piccola umanità lascia “a una ventura immaginata,
stantia e muffita, e più che altro ferma”. Pausa. “Tendente grossomodo
all’infinito”. Nell’attesa, il “piacere del testo”. Il
più infatti resta da dire.
Leggiamo infatti con sorpresa
crescente. Un fenomenismo spontaneo. Le parole come
materia. La narrazione fratta nel flusso di coscienza, l’artificio massimo del
narratore che si confonde con le sue creature. Agrammaticale come è ogni
sensazione e memoria, per lampi. Anacoluti. Metonimie. La parte per il tutto.
L’attributo frequente, connotativo. Senza sforzo, non apparente, solo una
felicità inventiva, come spontanea – l’ordito, di mestiere e applicazione, non
si mostra. Per il lettore una sorpresa, ma anche uno stimolo: una
sollecitazione all’esercizio della mente, contro l’alzheimer cui il Millennio lo
sta avvezzando.
Con le sue smilze ultime proposte,
“Caro Dio” due anni fa e questo
“Grognardo”, De Luca si vuole un scrittore avulso dal secolo, dal Millennio
globalizzato. I suoi lari, quelli che richiama, sono Belli e Zanazzo, la satira
romanesca. La trama è, non inconsciamente, gaddiana, con derive in Pizzuto. Che
non vuole dire nulla per il lettore, è solo godimento, ma per lo scrittore sì.
Ne moltiplicano le radici. Filologiche, derivate dagli studi. E generazionali,
le letture di formazione riconducendosi al secondo Novecento. Senza il nulla,
esistenziale o metafisico, che s’indovina sotto l’Ingegnere, e lo stesso
operosissimo Pizzuto - De Luca non “erige le parole tra sé e il vuoto”,
l’anamnesi corrente di Gadda.
Le radici fanno la differenza. È il
senso kierkegaardiano del vuoto (nulla) che le parole riempiono e insieme
esibiscono. La parola corre libera, quasi inseguita più che elaborata dal
parlatore, attorno a un “possesso impossibile”. Che è più di un ossimoro: è una
condizione, a volte dolorosa – in Gadda per esempio. De Luca la riempie
modestamente, della familiarità, le amicizie, la convivialità, lo stesso
odiosamato folklore paesano. Affettuosamente ironico, quindi, e non sarcastico,
ma ridendone poi al modo di Gadda. Nella pirotecnia di rinvenimenti
e neoformazioni. Per il piacere verbale, del sonoro della parola oltre che del
significato. Per il gusto del barocco in similoro – dell’accrescitivo,
dell’ornato. Nella narrazione tangenziale, per punti di vista che sono
punti di fuga, digressivi e anamorfici. Per le invenzioni, lessicali,
grammaticali. Che nell’Ingegnere si legano al barocco placcato dell’amato
Manzoni del romanzo, finto Seicento, in De Luca all’anarchia-cornucopia verbale
e grammaticale. All’abbondanza – la feracità di cui Campodimele pur
nell’indigenza è fattoria, magazzino e trovarobato. Alla “tradizione
sperimentale” anche.
Una scrittura scandita da molte
letture, da Ingrao poeta all’inevitabile Edgar Lee Masters dei funerali - ma in
originale. O a Byron, “Il giaurro, frammenti di novella turca”, 1818, tradotto
da Pellegrino Rossi, il carrarino dalle mille vite che avrebbe salvato l’Italia
col suo progetto di federazione, italiana ed europea, ma fu sacrificato
trent’anni dopo, a coltellate, alla Repubblica Romana - e\o al Piemonte.
Scampoli di grandi mondi, di riverenze miste al sorriso. Racconti di note -
come Gadda ambiva - con molte finestre: rimandi, aperture, fughe. Mistilingue,
nella migliore tradizione del Novecento - Gadda di nuovo. Che il Millennio
globale trascura – per un globalismo
uniforme, che cancella la diversità, il molteplice, l’esotico dei più
(appiattisce e non sbalza)? Le parole
come ossessione, come è stato detto di Pizzuto. Ma una lingua di suoni e
colori, vibrante di sensi. Non giornalistica come usa, insomma, né
anestetizzata dalla regola, la scrittura delle scuole di scrittura. E non
selvaggia da “franco narratore” come usava dire. Anzi colta, perfino dotta. Di
stilemi non solo, anche di riferimenti, a ogni passo: il tuziorismo, Fillide,
la romana Carístia, o Cara Cognatio, festa della
famiglia…
Una scrittura preziosa. È la
deriva dell’inedito, oltre che la tentazione del linguista – dello scrittore di
scritture: tanto vale scrivere per il godimento proprio, e degli happy few. Potendo peraltro fruire di un
fondo linguistico straordinario. Di capacità verbale sconfinata: inventiva e
radicata, sapiente e sapida. La tentazione dello sperimentalista è di
approssimare l’indicibile. Di sfida a se stesso prima che al lettore, ma
facendo luce nella giungla dell’inesplorato. La lingua non è una giungla, è
anzi lineare, di parole allineate, che però si possono variamente combinare,
anche forzandole fuori dall’orinario: allungare, restringere, piallare,
sbalzare. De Luca ne ha il genio. Ha quello che i romani chiamavano stilum, la punta che incideva le tavolette:
la costruzione snoda e annoda come geroglifico. A puntasecca.
De Luca comincia in queste prove dove
Pizzuto, e forse già Gadda, avevano finito: nell’asintassi e l’agrammatica.
Nell’eloquio paffuto, grasso, iperbolico dell’Ingegnere, nelle sue architetture
a volute piuttosto che geometriche, e nel racconto di note, digressivo. Con
Pizzuto si entra nella tebaide della stilistica: l’anacoluto tipico del
parlato, che procede più volentieri per asindeto. E altre figure classificate,
anche se di uso non impervio alla lettura, da letterato di formazione: la
metonimia, la sineddoche, l’interiezione apocopata, più spesso locale -
corretta volentieri, munendola di senso specifico intraducibile, in idiotismo:
le note sono un racconto a parte. Molte anastrofi. Ma l’elenco sarebbe lungo,
il lettore può apprezzarne il risultato senza rifarsi ai codici. Il
procedimento preferito è l’ipotiposi. Con protesi instancabili. De Luca è – non
si vuole ma è – un narratore diverso, lontano dal corrente, la rara avis. Pur volendosi semplice: un
narratore di cui la lingua è il trickster,
l’innesco e la materia, e insieme anche l’estraniazione, qui nella forma
dell’ironia, gentile.
Con Gadda
si direbbe un’immedesimazione: nelle tematiche trite, una sfida al plot, e nella libertà lessicale. Di
una neo lingua continuamente reinventata, e felice - “spontanea” e non
artificiosa. La prosa è a ogni rigo di strafottenza
gaddiana: accrescitiva, moltiplicativa, decostruttiva. A Pizzuto accostandosi per quest’ultimo
aspetto, la decostruzione quasi di programma, ai limiti del linguaggio stesso,
la significanza disperdendo e moltiplicando nei gorghi nell’asintassi. Mimando
il parlato, ma è un’apparenza: la costruzione è forte. Un arroccamento che si
può prendere dal basso. Come se De Luca volesse dire, come buona metà del
secondo Novecento: finora abbiamo parlato col vernacolo toscano, ora scriviamo
con tutti i vernacoli. Ma è di derivazione filologica. Corretta, molto, prima dell’illeggibilità.
La sua lingua è pur sempre un italiano e non un vernacolo, nemmeno un dialetto:
è un altro italiano, più aperto e ricco. Nel vocabolario e nella grammatica,
anche nella sintassi.
Fu lo scrittore siciliano promosso a
questore che meglio mise a frutto la “rivoluzione della lingua” del Gruppo 63
che si è appena finito di celebrare – più che gli scrittori del Gruppo: Balestrini,
Celati, Lombardi, Guglielmi, lo stesso Arbasino che ne era stato il profeta.
L’imperativo di mezzo secolo fa è più che mai attuale. Ma i riferimenti si propongono
a orientamento del lettore, l’esito è tutto De Luca e tutto nuovo. Non calchi o
pastiches, di cui si dilettava
l’Ingegnere e, a suo modo, anche il Questore, non prose dissolventi. Ma un
verbalismo frenetico, quasi incontinente, più ambizioso dei referenti.
Esercitandosi su storie, memorie e persone labili fino al rischio appiattimento
- cancellazione, anonimato. La narrazione
è della lingua stessa. Coerente come deve essere ogni lingua, ma
sconfinata: una narrazione oltre i confini. In senso proprio: dal vernacolo a
Lee Masters, dal dantesco al manzoniano, al mistilinguismo, al be-bop
(sincopato, tematico). Una scrittura da glottologo, ma movimentata. Una
pantomima verbale, un Dario Fo prima maniera, senza l’enfasi – ripetitiva,
retorica.
Detto tutto quello che è da dire
dell’Autore, le storie ci sono. La festa degli Zagarella nel racconto dei
tagni, “La frittata”, è quasi balzacchiana. “Ciammotte” è un esito invidiabile
per tutta la scienza redazionale del best-seller, che vi si cimenta
leoninamente ma senza effetti apprezzabili. Detto anche questo, i personaggi e
le storie di De Luca restano le parole. Da degustare
più che da sfogliare, un surplace
proponendo più che una corsa al finale.
Emanuele De Luca, Grognardo li Taverni e gl’altri conti da Campodimele,
Quattropassi libri, pp.146, ill., cd musicale, s.i.p.
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