mercoledì 8 febbraio 2017

Le chiavi di Kafka

Walter Benjamin voleva che Kafka avesse rimuginato per tutta la vita sul suo aspetto, senza sospettare che esistono specchi. Una facezia, e forse una cattiveria. Ma parte proficuamente da qui Stimilli, dal tormento di Kafka attorno alla sua stessa persona, per delinearne una fisionomia di scrittore e intellettuale probabilmente più aderente a quella vera. Un’indagine svolta in maniera concettosa, per volere essere il più possibile documentata, e per questo forse non fortunata, ma che fa – farà - testo.
Kafka tutta la vita fu alla ricerca di sé. Forse perché, come scrive in una lettera, “dai figli si vede che si invecchia”, e lui non ne aveva, la salute pretestando inadeguata al matrimonio e alla paternità. Fu eterno fidanzato, come Kierkegaard. Sentendo della paternità la mancanza – Stimilli trova vari riferimenti nei diari: “La felicità infinita profonda calda redentrice  di sedere accanto alla culla del proprio bambino di fronte alla madre”, “Sisifo era uno scapolo”, “Un uomo infelice, che non deve avere figli, è terribilmente chiuso dentro la sua infelicità” (Kierkegaard: “Il figlio è per così dire uno specchio, in cui il padre vede se stesso”).
Il Sisifo Kafka era uno scapolo
I riferimenti sono molti. “Neppure fu concesso a Kafka”, conclude Stimilli, “di sopravvivere al proprio genitore, per giungere a una  riconciliazione postuma, a quella grande Giornata del Perdono, che anche la conclusione della «Lettera al padre» auspicherà”. Di conseguenza, “se gli specchi naturali dell’uomo” – padre-figlio – “erano entrambi preclusi a Kafka, ogni altra forma di rispecchiamento appariva ai suoi occhi inadeguata”: Anche di questo i riferimenti sono molti: o  l’imbruttiva, o l’abbelliva, contro ogni convenzione.
Un originalissimo approccio. Molto vicino al Kafka del lettore, che lo trova soprattutto scontento – non è stato tentato prima perché anche Kafka è vittima del kafkismo? Kafka si amava molto. O non si amava? Era, per la testimonianza affettuosa di Max Bord e per le sue stesse lettere, “un bambino di sei anni” allungato, che non vivrà “mai l’età adulta”, e poi all’improvviso sarà vecchio? Il dato biografico sicuramente incide, sofferto e costante, perfino ossessivo. Come di chi si ripiega su se stesso. Di uno che sin dal 1911, a 28 anni, aveva sentito prepotente il “desiderio di scrivere un’autobiografia”, e nel 1919 in parte lo fa, con la “Lettera al padre”.
Uno scavo – un inizio di scavo – vertiginoso nell’opera e la persona di Kafka. Come se, malgrado tutto (Canetti, Benjamin, Adorno, ora il suo cultore Reiner Stach, lo stesso Brod), fosse finora rimasto imbalsamato in una agiografia sommaria. Sarà difficile non rileggerlo con trepidazione, tante sono le velature che Stimilli solleva di Kafka, le necrosi che espone. Il “morsus conscientiae”, o l’ingiustizia di Schopenhauer come cannibalismo. La bestialità istintuale. La memoria come tribunale. Il “Castello” come castellum animae.
L’ingiustizia come cannibalismo
Stimilli ricompone il mondo di Kafka analizzando in dettaglio e quasi al microscopio “Il Castello”, soprattutto, e “Il Processo”. In riguardo alle fonti. Che non sono la Cabbala, ma gli studi che Kafka ha pur fatto, e le letture, di cui Stimilli trova tracce solide: riferimenti nei diari e le lettere, citazioni quasi integrali nelle due opere, ricostruzioni quasi al dettaglio di personaggi e attitudini. Ne ricompone anche la Praga tedesca dei suoi anni. Con Meyrink e il “mondo magico”. Bachofen e la “cultura mongolica” (nomade) come antidoto all’eterismo, alla sessualità compiaciuta. La fisiognomica aggiornata di Kassner e Weininger. Lo Schopenhauer dell’Umrecht, dell’ingiustizia come cannibalismo  che è il proprio dell’uomo. Kierkegaard. Molto Weininger – la fisiognomica dinamica e altre avventure. Molto Nietzsche. Comenius perfino, il “paradiso del cuore” e il “labirinto del mondo”. E via via coi saggi sulle fonti o le chiavi di Kafka, una spremuta interminabile anche, sempre densa, dei due romanzi, parola per parola, e dentro le parole.
Il tanto Nietzsche è più conflittuale che complice. Nietzsche elimina gli specchi, si vive senza. Kafka no, nei “Diari” è tassativo: “Inevitabile obbligo di osservare se stessi. Se sono osservato da altri devo naturalmente osservarmi anch’io”. E siamo al 7 novembre 1921, ai quasi quarant’anni, senza remissione: “Se invece nessuno mi osserva, devo osservare me stesso tanto più esattamente”.
Non è agevole trovare le chiavi di un autore. Non fosse altro perché sono ignote o confuse all’autore stesso, che più spesso depista, anche inavvertitamente. Peggio per Kafka, narratore introspettivo al limite dell’esoterico. Che la cabala, o l’ebraismo infuso (“Il Castello” rappresenta la Grazia, “Il Processo” la Giustizia divina), proposto e imposto da Max Brod, il sionista, tiene in cattività.
L’autocalunnia
Stimilli, germanista e ebraista, ci prova con più mezzi. Non fantasiosi né approssimati – che anzi la lettura vogliono faticosa. Partendo da Kafka stesso. Dalla sua incapacità di vedersi, per troppo “vedere” – leggere, recepire. Ne esce lo scrittore forse più letterato-letterario. “Fatto”, come di direbbe di un drogato, di Goethe “demonico”, Nietzsche, Kierkegaard, Schopenahuer. Per riferimenti precisi, dei diari, le lettere e i racconti - specie dei due romanzi che Stimilli microscopizza, “Il Castello” soprattutto, e “il Processo”. A specchio dei quali matura, invasivo, un sentimento che oggi si dice di inadeguatezza. Dai molteplici risvolti, ma tutti concorrenti.
La persistente impossibilità – inettitudine? – di adempiere a una qualche Aufgabe, a un compito, un destino. La debolezza della memoria (“Kaspar Hauser”, nella prima e nell’ultima redazione). L’incomprensione del mondo (Otto Weininger a profusione). Quella che in altro testo (la conferenza “Kafka’s Shorthand”, tenuta al Warburg Institute a Londra nel 2006) lo stesso studioso dirà autocalunnia. Dopo aver rilevato che K. sta per il latino Kalumniator, che “Il processo” è un processo per calunnia. Un delitto grave nel diritto romano – che Kafka aveva studiato – giacché in quel processo la pubblica accusa aveva un ruolo limitato, e quindi la calunnia si temeva, tanto da punire i falsi accusatori con la lettera K. marchiata sulla fronte. Ma allora, nell’economia del “Processo”, di cui Josef K. è il protagonista, vittima poco convincente, il processo è per autocalunnia: lo Jemand, il qualcuno, che ha dato origine al processo è lo steso Josef K.. Una conclusione dopo la quale in effetti la lettura scorre filata.
Davide Stimilli, Fisionomia di Kafka, Bollati Boringhieri, remainders, pp. 119 € 7,23

Nessun commento:

Posta un commento