Il mafia-Stato parte in Sicilia da
lontano. “I mafiosi”, che se ne fa il nucleo drammatico, risale al 1964 o 1965.
Ed è, dice Sciascia, “un rifacimento” – ancorché “radicale… e, in quella che si
suol dire la morale della favola, un rovesciamento” – dei “Mafiusi della
Vicaria”, del carcere palermitano, di Rizzotto e Mosca, “rappresentata a
Palermo nel 1863 e da allora nel repertorio di tutte le compagnie dialettali
siciliane”.
Anche le tasse della chiesa, che la
chiesa non vuole pagare, sono argomento vecchio. La “controversia liparitana”
fu sette anni di liti, scomuniche e interdetti in Sicilia tra la chiesa e il
governo spagnolo prima, poi sabaudo, poi di nuovo spagnolo, a partire dal 1711,
sul pagamento della tasse. E una sorta di anticipazione del conflitto poi
sanguinoso, un secolo dopo, tra sanfedisti e borghesi.
Parte da lontano pure la politica: la
politica “siciliana”, corruttrice e corrotta. “L’onorevole” è un bravo
professore di latino e greco che cede alla lusinga della Dc nel 1948 e cambia
natura.
Il teatro di Sciascia, che non si mette
in scena e di cui non si pubblica più la vecchia (1976) raccolta Einaudi,
l’unica parte di Sciascia fuori catalogo, è un teatro del pessimismo. Che, come
tutto in Sciascia, si presenta come una ricerca della ragione, un’evidenza
della ragione, l’amore della ragione. Ma senza fede. Per un atto di orgoglio
più che ragionato.
La pièce più complessa, la “Recitazione
della controversia liparitana”, del1969, è dedicata a A.D., Alexandr Dubcek,
come un atto di rassegnazione. Dubcek è da tempo sconfitto, l’invasione della
Cecoslovacchia c’è già stata da un anno. Sciascia apre con una citazione di san
Luca, di Pascal che cita san Luca: “Voi non siate come loro”. Ma i “borghesi” o
illuminati la concludono dicendosi sconfitti “a opera di aristocrazia, plebe e
uomini di lettere”. Che non sembrano pochi. Dopo aver condotto una “battaglia
di libertà” piuttosto che di giustizia, volendosi intromettere nella gestione
ecclesiastica, sull’onda dell’ultramontanismo laico, piuttosto che di giustizia
fiscale e sociale. Effetto forse non
voluto della “Recitazione” – o allora pietra d’inciampo per una sua diversa
lettura – è la rappresentazione, nel
finale, della fede che supera ogni razioncinio. Ridotta in superficie a mero
esercizio anticlericale, di una fede cioè ridotta a superstizione e scongiuto.
Di fatto professata dagli stessi grandi futuri borghesi.
Due aneddoti, due
articoli di giornale, la prima e l’ultima pièce,
anzi due note a margine, fatta la tara dello sdegno. La “Recitazione” ha lo
spessore della storia negletta, del recupero. Sciascia la correda della cronaca
contemporanea ai fatti del canonico Antonino Mungitore, uno storico che si era
schierato con i “curialisti”, i fautori dei vescovi e del papa, ma più che
altro sembra sorpreso dal rigonfiamento smisurato della questione. E così è,
anche la “controversia liparitana” è paradigmatica, della “sicilitudine”: dove
altro poteva montare, fino alla violenza, se non in Sicilia?
“I mafiosi” ha avuto una
rappresentazione, al Piccolo di Milano, nel 1965, come contributo allo
spostamento della questione meridionale dall’economia al crimine. Una
motivazione oggi scontata. È vero che giudici siciliani oggi vedono la mafia
dappertutto, in Calabria, a Roma e a Milano, in Sicilia ne trovano poca. E che
la questione meridionale è la questione dei Carabinieri. Ma i cronisti
giudiziari lo dicono meglio.
Leonardo Sciascia, L’onorevole. Recitazione della controversia liparitana. I mafiosi
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