Si comincia a
capire il “fenomeno Trump” (perché l’America lo ha votato), rivedendo la
cerimonia degli Oscar. L’autocelebrazione dei belli-e-buoni, della correttezza,
della nuova politica. Che a Hollywood la notte degli Oscar doveva essere tre
cose – tre cose da programma: premiare gli afroamericani (“Moonlight”,
“Barriere”), dirci dei “relitti umani” (“Moonlight”, “Manchester by the Sea”, “Il
cliente”, “Barriere”), e dire male di Trump. Che però potrebbe essersene
rallegrato.
Tanta pompa per
film tanto malinconici e anzi crudeli non può che rivoltare. È stato premiato
anche “La La Land”, ma era ovvio. I premi politici invece, se si possono
considerare in linea con la crisi che stiamo vivendo da dieci anni, colpiscono per
la loro assurdità: la crisi è interiorizzata, non ci sono colpevoli, siamo vittime ma non si sa di che. Tutti grigi, tutti condannati. Anzi, i colpevoli
siamo noi, vittime di noi stessi.
Uno non può che
ribellarsi, per istinto di sopravvivenza. E se tutto questo è celebrato, tra papillons,
decolletés e champagne, allora vaffa, è
l’ora dei Grillo-Trump. Manchester-by-the-sea, la cittadina a Cape Ann, nel
ricco Massachusetts, dove il film è ambientato, ha votato compatta per Trump. Così
come la Paterson di “Paterson”, film di ambientazione analoga, tra personaggi minimi
e relitti umani – ma di altro spessore, non ha avuto bisogno degli Oscar per
promuoversi.
“Non rispondere
alle provocazioni” era la parola d’ordine del Sessantotto - del movimento, dei
cortei, delle manifestazioni: si dava per scontato che sotto e dietro ci fossero
dei malintenzionati: Digos, fascisti, cani sciolti. Fino a che, presto, la “provocazione”
non venne dall’interno – dalla purezza, la correttezza, la civiltà etc.: il disfacimento.
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