Si comincia con un palazzo che va
sgomberato perché a rischio crollo. E si continua con una serie di disgrazie, naturalmente
non volute, ma siamo in una valle di lacrime, e per lo spettatore non c’è
difesa. Nella vita di coppia, poi, immaginarsi: mai una gioia. In ambienti sempre minimi: il garage, i
ballatoi, un teatrino off-off, appartamenti troppo piccoli, troppo pieni o
troppo vuoti - non si riesce ad alzare lo sguardo.
Premio sceneggiatura e premio miglior attore
protagonista a Cannes. Ci possono stare, ma l’impressione è che i festival, a Cannes
come altrove, facciano decisioni “politiche”: un premio americano, meglio se “indipendente”,
uno europeo, uno delle nuove cinematografie.
Il cinema iraniano è cresciuto con la caratteristica
rappresentazione per “volute”, di visi e dialoghi ripetitivi, insistiti, limitati,
come se fossero vita vissuta. Ma con due effetti diversi: se applicata al mondo
rurale ne ricava la bellezza del remoto, del diverso, se applicata alla vita
urbana si appesantisce dell’indistinto. Questa è forse l’unica possibilità di
fare cinema a Teheran sotto il khomeinismo, ma l’effetto in questo secondo caso
è di un neo realismo stanco.
Dell’evento che innesca la vicenda, il
palazzo a rischio crollo dopo che è stato ricostruito per la seconda volta, un fatto
non inconsueto in un regime di affaristi, non si parla, la censura non lo
consentirebbe. Solo se ne può derivare una storia intimistica, sulla falsariga
della “Morte di un commesso viaggiatore”, il dramma di Arthur Miller, che i protagonisti
approntano e recitano da dilettanti. Anche questo, nel lungo film, stanca.
Asghar Farhadi, Il cliente
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