Lo
studio “definitivo” delle dinamiche dell’ineguaglianza nell’economia globale. Sulla
base della rilevazione statistica di chi
ci guadagna e chi ci perde – per l’esattezza di chi ci guadagna di più e
chi di meno. Condotta su una serie millenaria di dati, fin dove un qualche
simulacro di rilevazione o annotazione quantitativa è reperibile. Eletto libro dell’anno dall’“Economist” e dal “Financial Times”. Ma di autore
post-terzomondista, serbo, ex analista della Banca Mondiale, professore alla City University of New York, studioso un tempo si sarebbe detto dell’imperialismo,
autore di varie pubblicazioni sulle disuguaglianze (un paio tradotte: “Chi ha e chi non ha. Storie di disuguaglianze”, 2011, e “Mondi
divisi. Analisi della disuguaglianza globale” già del 2006, prima della crisi).
L’effetto
– in realtà lo scopo – di Milanovic è di dimostrare che l’ineguaglianza si ripete
ciclicamente. Per guerre e pesti, per sommovimenti tecnologici. Nonché per il
sistema educativo, se è più o meno aperto (accessibile) e per le politiche
redistributive, fiscali o sociali. Il penultimo balzo verso l’ineguaglianza si
è avuto con la Rivoluzione Industriale un secolo e mezzo fa. L’ultimo è quello
che stiamo vivendo.
L’altro
esito della ricerca è che l’ineguaglianza è cresciuta nell’ultimo quarto di
secolo, con la globalizzazione, all’interno
delle nazioni. Mentre è diminuita, molto, fra
le nazioni. È questo che rende la
globalizzazione irrinunciabile. Milanovic calcola che i redditi delle classi
medie rampanti in Cina e India si avvicinano molto al reddito stagnante delle classi analoghe
nei paesi più sviluppati. Una politica dell’immigrazione aperta condurrebbe,
argomenta, a un’ulteriore riduzione del gap tra
le nazioni.
Grafico
dell’elefante
Si situa in questo quadro l’ormai famoso
“grafico dell’elefante”, Elephant Chart,
sulla distribuzione dei benefici della globalizzazione. Una figurazione complessa,
il cui risultato prende il profilo di un elefante, nel quale Milanovic schematizza
le variazioni dei redditi reali familiari di 196 paesi, per il ventennio
1988-2008, per classi di reddito in percentili. È il Ventennio della
Globalizzazione (Milanovic dice più esattamente dell’“alta globalizzazione”),
tra la caduta del Muro e quella di Lehman Brothers. Crescono i redditi per
tutti, è il grosso dell’elefante. Quelli delle classi medie della parte alta
del grafico, la gobba, della Cina, dell’India e di altri paesi emergenti, tra
il 60° e il 75° percentile, sono cresciuti dell’80 per cento. Quelli della proboscide, oltre l’85°
percentile, sono cresciuti anch’essi – l’1 per cento più ricco dell’Europa e
degli Usa ha avuto un’ulteriore crescita del 60 per cento. Ma nel collo, tra il corpo e
la proboscide, tra il 75° e l’85° percentile, le classi medie euroamericane,
non c’è stato alcun beneficio, e anzi qualche sacrificio.
La globalizzazione produce più risorse,
conclude Milanovic. E riduce o elimina le barriere tra i popoli. Questo è un bene. L’economia è più efficiente, gli sprechi
ridotti. Molti paesi hanno abbandonato i controlli sui capitali, quasi tutte le
monete sono convertibili, le tariffe doganali sono molto ridotte, il ruolo del capitale è cresciuto produttivamente, i sussidi governativi ridotti. Di sicuro, però, accresce le
ineguaglianze - le riduce fra gli Stati, le acuisce al loro interno. Un altro
effetto contestabile è che viene ridotto il ruolo degli Stati: questo non si sa ancora
se è un bene o un male.
Tutto è business
Per gli
effetti perversi della globalizzazione sui vecchi ceti medi, impiegatizi e
operai, del Vecchio Mondo la ricerca di Milanovic viene presentata ora anche
come la risposta al quesito: perché Trump. Una buona metà dell’accresciuta ineguaglianza
negli Usa Milanovic localizza nelle aree più innovative: New York, la Bay Area attorno a San
Francisco, e lo stato di Washington. Le aree della New Economy, dove si è concentrato il voto pro
Clinton. Ma questo è tutto. Milanovic non si schiera nel libro, dove,
astraendo dal fatto Usa, dice l’opposto: non
sappiamo come andrà a finire. Per la pressione sociale nei paesi di nuova
ricchezza. E nei nostri paesi per il prevalere del nazionalismo, forse, sotto
le spoglie del populismo, non esclusa la guerra, economica o militare. Anche se sono non
probabili: “Sia l’ineguaglianza americana che quella cinese sono ben trincerate
e riproduttive”.
Un rivolgimento non è escluso. Ma solo in froma di ipotesi, in risposta alla domanda “che succederà?”. La risposta è un domanda: che
succederà quando l’ineguaglianza sarà diventata intollerabile in Cina e in
India. Le quali, questa per troppo disordine, quella per troppo ordine, sono
riuscite finora a obliterane le reazioni. Ma fino a quando? Una risposta cioè
ipotetica. Che Milanovc affida, con civetteria consueta un tempo a Marx, al teorico del
liberismo, von Hajek: “Promette male per il futuro del mercato che la sola sua
difesa che il pubblico capisce sia l’identificazione
del successo con la virtù”.
Lo
studioso serbo opera ancora secondo lo schema terzomondistico, della
stratificazioni astratte, indipendentemente dai fattori socioculturali, e anche
da quelli politici. Come quello che regge la globalizzazione, frutto dell’asse
Washington-Pechino, dagli anni dell’ultimo Reagan e di Deng, l’uomo delle
quattro modernizzazioni dell’anchilosato comunismo cinese, il
modernizzatore-privatizzatore. Fattori politici che nell’ex Terzo mondo più spesso
sono distruttivi, per esempio in Africa e nel Medio Oriente, per corruttela,
coercizione, violenza, frammentazione sociale, e ora l’integrismo religioso. Non
meno incongruo, all’altro capo, è l’abito mentale di considerare il lavoratore in fabbrica del
Wisconsin e quello del Sinkiang o del Kerala in copia carbone.
Perché
Trump
Un tempo lo studioso si sarebbe detto marxista, e come
tale ripete spesso che gli interessi economici decidono la politica – la struttura
decide la sovrastruttura. Non sempre ma spesso – l’esempio porta di Cuba,
estraniata e resa ostile, dice, per più di mezzo secolo dagli interessi saccariferi….
Il fatto economico semmai da tempo opera al rovescio, condiziona la politica ma
in senso agitatorio, se non si vuole dire rivoluzionario: la nascita dei
populismi (Brexit, Le Pen, Trump, la Polonia e altri) conferma che la politica
può essere determinata, in regime elettorale aperto, dai problemi economici dei
ceti marginali e degli incapienti.
Sull’attualità è utile segnalare che
Milanovic, come molti nella sinistra studiosa e di classe negli Usa, si trova a
disagio col riduttivismo anti-Trump. Non nel libro, ma nelle presentazioni che se
ne organizzano, è scontento della riduzione del fenomeno Trump al razzismo e
alla misoginia. Perché si cancella come “irredimibile” una quota importante
della popolazione, condannandola come razzista e misogina. E questo solo per non
voler considerare il fattore economico, di reddito e di status: “La teoria che
il nativismo solo sia responsabile della crescita del populismo”, ripete in una
recente intervista, “o, ancora più bizzarra, la teoria che i «perdenti» nei paesi
ricchi non dovrebbero lamentarsi perché stanno comunque meglio dei lavoratori
in Cina, sono solo risposte sbagliate a problemi molto grossi”.
Branko Milanovic, Global
Inequality, Harvard University Press, pp. 320, ill., ril., € 27
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