venerdì 31 marzo 2017

Chi guadagna di più dalla globalizzazione

Lo studio “definitivo” delle dinamiche dell’ineguaglianza nell’economia globale. Sulla base della  rilevazione statistica di chi ci guadagna e chi ci perde – per lesattezza di chi ci guadagna di più e chi di meno. Condotta su una serie millenaria di dati, fin dove un qualche simulacro di rilevazione o annotazione quantitativa è reperibile. Eletto libro dell’anno dall’“Economist” e dal “Financial Times”. Ma di autore post-terzomondista, serbo, ex analista della Banca Mondiale, professore alla City University of New York, studioso un tempo si sarebbe detto dell’imperialismo, autore di varie pubblicazioni sulle disuguaglianze (un paio tradotte: “Chi ha e chi non ha. Storie di disuguaglianze”, 2011, e “Mondi divisi. Analisi della disuguaglianza globale” già del 2006, prima della crisi).
L’effetto – in realtà lo scopo – di Milanovic è di dimostrare che l’ineguaglianza si ripete ciclicamente. Per guerre e pesti, per sommovimenti tecnologici. Nonché per il sistema educativo, se è più o meno aperto (accessibile) e per le politiche redistributive, fiscali o sociali. Il penultimo balzo verso l’ineguaglianza si è avuto con la Rivoluzione Industriale un secolo e mezzo fa. L’ultimo è quello che stiamo vivendo.
L’altro esito della ricerca è che l’ineguaglianza è cresciuta nell’ultimo quarto di secolo, con la globalizzazione, all’interno delle nazioni. Mentre è diminuita, molto, fra  le nazioni. È questo che rende la globalizzazione irrinunciabile. Milanovic calcola che i redditi delle classi medie rampanti in Cina e India si avvicinano molto al reddito stagnante delle classi analoghe nei paesi più sviluppati. Una politica dell’immigrazione aperta condurrebbe, argomenta, a un’ulteriore riduzione del gap tra le nazioni.
Grafico dell’elefante
Si situa in questo quadro l’ormai famoso “grafico dell’elefante”, Elephant Chart, sulla distribuzione dei benefici della globalizzazione. Una figurazione complessa, il cui risultato prende il profilo di un elefante, nel quale Milanovic schematizza le variazioni dei redditi reali familiari di 196 paesi, per il ventennio 1988-2008, per classi di reddito in percentili. È il Ventennio della Globalizzazione (Milanovic dice più esattamente dell’“alta globalizzazione”), tra la caduta del Muro e quella di Lehman Brothers. Crescono i redditi per tutti, è il grosso dell’elefante. Quelli delle classi medie della parte alta del grafico, la gobba, della Cina, dell’India e di altri paesi emergenti, tra il 60° e il 75° percentile, sono cresciuti dell’80 per  cento. Quelli della proboscide, oltre l’85° percentile, sono cresciuti anch’essi – l’1 per cento più ricco dell’Europa e degli Usa ha avuto un’ulteriore crescita  del 60 per cento. Ma nel collo, tra il corpo e la proboscide, tra il 75° e l’85° percentile, le classi medie euroamericane, non c’è stato alcun beneficio, e anzi qualche sacrificio.
La globalizzazione produce più risorse, conclude Milanovic. E riduce o elimina le barriere tra i popoli. Questo è un bene. L’economia è più efficiente, gli sprechi ridotti. Molti paesi hanno abbandonato i controlli sui capitali, quasi tutte le monete sono convertibili, le tariffe doganali sono molto ridotte, il ruolo del capitale è cresciuto produttivamente, i sussidi governativi ridotti. Di sicuro, però, accresce le ineguaglianze - le riduce fra gli Stati, le acuisce al loro interno. Un altro effetto contestabile è che viene ridotto il ruolo degli Stati: questo non si sa ancora se è un bene o un male.
Tutto è business
Per gli effetti perversi della globalizzazione sui vecchi ceti medi, impiegatizi e operai, del Vecchio Mondo la ricerca di Milanovic viene presentata ora anche come la risposta al quesito: perché Trump. Una buona metà dell’accresciuta ineguaglianza negli Usa Milanovic localizza nelle aree più innovative:  New York, la Bay Area attorno a San Francisco, e lo stato di Washington. Le aree della New Economy, dove si è concentrato il voto pro Clinton. Ma questo è tutto. Milanovic non si schiera nel libro, dove, astraendo dal fatto Usa, dice l’opposto: non sappiamo come andrà a finire. Per la pressione sociale nei paesi di nuova ricchezza. E nei nostri paesi per il prevalere del nazionalismo, forse, sotto le spoglie del populismo, non esclusa la guerra, economica o militare. Anche se sono non probabili: “Sia l’ineguaglianza americana che quella cinese sono ben trincerate e riproduttive”.
Un rivolgimento non è escluso. Ma solo in froma di ipotesi, in risposta alla domanda “che succederà?”. La risposta è un domanda: che succederà quando l’ineguaglianza sarà diventata intollerabile in Cina e in India. Le quali, questa per troppo disordine, quella per troppo ordine, sono riuscite finora a obliterane le reazioni. Ma fino a quando? Una risposta cioè ipotetica. Che Milanovc affida, con civetteria consueta un tempo a Marx, al teorico del liberismo, von Hajek: “Promette male per il futuro del mercato che la sola sua difesa che il pubblico capisce sia l’identificazione del successo con la virtù”.
Lo studioso serbo opera ancora secondo lo schema terzomondistico, della stratificazioni astratte, indipendentemente dai fattori socioculturali, e anche da quelli politici. Come quello che regge la globalizzazione, frutto dell’asse Washington-Pechino, dagli anni dell’ultimo Reagan e di Deng, l’uomo delle quattro modernizzazioni dell’anchilosato comunismo cinese, il modernizzatore-privatizzatore. Fattori politici che nell’ex Terzo mondo più spesso sono distruttivi, per esempio in Africa e nel Medio Oriente, per corruttela, coercizione, violenza, frammentazione sociale, e ora l’integrismo religioso. Non meno incongruo, allaltro capo, è l’abito mentale di considerare il lavoratore in fabbrica del Wisconsin e quello del Sinkiang o del Kerala in copia carbone.
Perché Trump
Un tempo lo studioso si sarebbe detto marxista, e come tale ripete spesso che gli interessi economici decidono la politica – la struttura decide la sovrastruttura. Non sempre ma spesso – l’esempio porta di Cuba, estraniata e resa ostile, dice, per più di mezzo secolo dagli interessi saccariferi…. Il fatto economico semmai da tempo opera al rovescio, condiziona la politica ma in senso agitatorio, se non si vuole dire rivoluzionario: la nascita dei populismi (Brexit, Le Pen, Trump, la Polonia e altri) conferma che la politica può essere determinata, in regime elettorale aperto, dai problemi economici dei ceti marginali e degli incapienti.
Sull’attualità è utile segnalare che Milanovic, come molti nella sinistra studiosa e di classe negli Usa, si trova a disagio col riduttivismo anti-Trump. Non nel libro, ma nelle presentazioni che se ne organizzano, è scontento della riduzione del fenomeno Trump al razzismo e alla misoginia. Perché si cancella come “irredimibile” una quota importante della popolazione, condannandola come razzista e misogina. E questo solo per non voler considerare il fattore economico, di reddito e di status: “La teoria che il nativismo solo sia responsabile della crescita del populismo”, ripete in una recente intervista, “o, ancora più bizzarra, la teoria che i «perdenti» nei paesi ricchi non dovrebbero lamentarsi perché stanno comunque meglio dei lavoratori in Cina, sono solo risposte sbagliate a problemi molto grossi”.   
Branko Milanovic, Global Inequality, Harvard University Press, pp. 320, ill., ril., € 27

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