La storia dell’amore, felice e infelice,
per Jacques Henric, marito dell’autrice, evidentemente fedele da un quarto di
secolo, dopo esserne stato per un ventennio dal 197, colaboratore alla rivista
“art press” di cui Catherine Millet è fondatrice e direttrice, levatrice e
regina dell’arte conettuale. “Jour de souffrance” in originale, gelosia nelle
traduzioni, che l’autrice ha voluto, è una estenuazione della forma più ordinaria di
pathos o sofferenza amorosa, e la più dolorosa anche, in astratto. Non nel
caso, che l’autrice inframezza di scene ordinarie di sesso estremo, di qelle
cui abbonda nel racconto che l’ha resa famosa, “La vita sessuale di Caterine
M.” - qui arricchite dal voyeurismo: la gelosia, più che tormentarla, la trafsorma
in guardona goduriosa. Lì si inscenava il sesso di gruppo, qui la masturbazione.
Questa gelosia è una sofferenza
introversa, di cui non viene fatta colpa al compagno che l’ha originata, e per
questo tanto più esulcerante. Ma non distruttiva, come ci si aspetterebbe: il
suo delirio Catherine ferma a buon punto.
Dopo averlo inframezzato di rapporti rfeali e immaginari di ogni tipo, a distanza,
a letto e in pedi, con lo stesso Jacques. Fin qui è un racconto noto, la gelosia
non è nuova alle lettere. E in questo caso è anche pretestuosa, a nuove
figurazioni di sesso. L’autrice onesta lo dice subito di sé: “Mi piaceva
passare ad un uomo all’altro”. Spregiudicata. Della generazione del
Sessantotto, che non cita, alla promisuita sessuale c’è abituata .
Ma non è tutto. Di suo c’è una scrittura
piena di pietre d’inicampo e insieme semplice. Il tema è un caso clinico di cui
il paziente facesse l’anamnesi. Ma quanto appassionante nella sua varietà: di impressioni,
toni, sugestioni. Questo selfie parte
dalla capacità di “sistematici ed elaborati sogni diversi”. Inacessibili agli
urti: “Il sognatore fa tesoro solo di beni immateriali”. A suo agio “nelle ammucchiate
del Settimo Arrondissement di Parigi” come al “pranzo di matrimonio in un
paesino sperduto in Umbria”. Una sorta di corporea immaterialità. Sorretta dalla
capacità di “vedere” l’invisibile, acuita dal lungo esercizio di esperta
d’arte. Doti affidabili che però le si rivoltano contro. In una asorta di
nemesi, di invidia degli dei, un effetto boomerang.
Tutte queste capacità congiurano a una
narrazione di cui lei stessa è vittima. Senza possibilità di happy end, e anzi aggravamdo il quadro a
mano he le esercita. Esperta d’arte, ha l’occhio clinico, lo dice all’inizio.
Vede, come le ha insegnato Dalì, dove noi non vediamo, le cose le parlano. Così le foto che suo marito tiene sparse sul
suo tavolo, negligente. Se ne costruisce una gabbia da cui non riesce a uscire.
È, metaforicamente per il suo alter ego,
della Millet esperta d’arte, una rappresaglia sull’occhio di lince, sulla capacità di intravedere. Di una potenza oscura o ignota.
E sulla capacità d’inventarsi mondi nei sogni a occhi aperti. Se non che tutto
poi confluisce in una storia d’amore costruita – un mondo inventato a occhi
aperti.
Catherine Millet, Gelosia,
Mondadori, remainders, pp. 219 € 9,25
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