lunedì 27 marzo 2017

Dante etrusco europeo

Il proposito di evitare “un Dante alla dantesca” - un altro - e di ricondurre “Dante sulla terra” è vanificato nei cinquanta capitoletti. Già la scansione è una resa: un personaggio con cinquanta aspetti da trattare è bene “alla dantesca”. Del resto l’iconoclasta confessa subito: “Vedo in lui, oltre il fiorentino del Duecento, un profeta ebreo, un sacerdote etrusco e un imperialista romano”. Il sacerdote etrusco mancava alla panoplia. E tuttavia è un libro che più di altri mancava, nella generale eclisse in cui è piombato Papini.
Un libro papiniano: di umori, e di lampi. Beatrice è anche madre. La sublimazione quasi divina di Beatrice è estranea al cristianesimo e senza precedenti nella poesia di tutti i popoli. La leggenda di Dante è immediata, in Boccaccio, Petrarca, Benvenuto da Imola. Dante è lamentoso e piagnucoloso, e non eroico. Già autore in gioventù, nel 1910, di un “La leggenda di Dante”, contro le tante castronerie di cui Dante viene reso protagonista o testimone, molto di suo Papini aggiunge. Giusto la premessa: un altro Dante, non il solito “companatico di onesti professori o trastullo di ambiziosi dilettanti”. All’ora, 1933, in cui il fascistissimo compaesano di Dante, forse stanco, cominciava a guardare all’Europa.
Questa riedizione – in vista del settecentenario della morte di Dante fra qualche anno - fa dell’europeismo, di Dante e di Papini, la ragione d’essere del libro, ma non senza motivo. Dante è “vivo” anche perché il suo messaggio teologico e etico è quello della chiesa del Novecento:  non più una struttura di potere ma un’istituzione impegnata a insegnare “ad insegnar e agli uomini ad essere perfetti, sì da meritare la pace in terra e la beatitudine in cielo”. E per il suo schieramento per l’impero, per l’unità dei popoli – così come il suo critico, che qualche anno dopo, annota l’editore, “si farà promotore in un celebre discorso per l’appunto di un’Europa unita”. Ma la trattazione non è  melensa.
Dante è antitaliano. Ma è anche il contrario, troppo italiano: litigioso, individualista, vendicativo. È piagnucoloso. Soprattutto nella “Vita Nova”, dove si piange per un terzo delle pagine. E lamentoso, di Firenze, dell’Italia, della sua storia, delle donne, degli uomini, del mondo. È crudele. È giudice parzialissimo. Vendicativo sempre. Papini si diverte a sollevare pietre d’inciampo. È superbo, si sa. E la superbia è un peccato, di cui però lui si assolve. Si fa dare da Cacciaguida la grazia infusa (“Paradiso”, XV, 28-30), “superinfusa”. Che si discuteva allora, e poi per qualche secolo, se non fosse stata privilegio della Madonna, unico. Subito, all’“Inferno”, IV, 100-102, si paragona a Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, Virgilio. Interpella e rampogna, condanna, elegge papi e imperatori, cardinali, principi. Corti. Ma questo è quello che lo fa Dante, la “superiorità” del poeta. Di un’arroganza che non dà fastidio.
È anche profetico: “Era nutrito, come tutti i cristiani erano e dovrebbero essere, col midollo della Bibbia. Ma ho il sospetto che si confacesse al suo spirito più il Vecchio testamento che il nuovo. E nel Vecchio doveva sentirsi più vicino ai Profeti”. Per “quel bisogno di avvertire, di ammonire, di minacciare, d’annunziare, in forma simbolica ma spesso irata e cruda, tanto i castighi che le salvazioni future”. Papini trova “le potenti fulminature d’Isaia e di Geremia” anche nelle lettere politiche.
Giovanni Papini, Dante vivo, La Scuola di Pitagora, pp. 348 € 25

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