Il proposito di evitare “un Dante alla dantesca” - un altro - e di
ricondurre “Dante sulla terra” è vanificato nei cinquanta capitoletti. Già la
scansione è una resa: un personaggio con cinquanta aspetti da trattare è
bene “alla dantesca”. Del resto l’iconoclasta confessa subito: “Vedo in lui,
oltre il fiorentino del Duecento, un profeta ebreo, un sacerdote etrusco e un
imperialista romano”. Il sacerdote etrusco mancava alla panoplia. E
tuttavia è un libro che più di altri mancava, nella generale eclisse in cui è piombato Papini.
Un libro papiniano: di umori, e di lampi. Beatrice è anche madre. La
sublimazione quasi divina di Beatrice è estranea al cristianesimo e senza
precedenti nella poesia di tutti i popoli. La leggenda di Dante è
immediata, in Boccaccio, Petrarca, Benvenuto da Imola. Dante è lamentoso e
piagnucoloso, e non eroico.
Già autore in gioventù, nel 1910, di un “La leggenda di Dante”, contro le tante
castronerie di cui Dante viene reso protagonista o testimone, molto di suo Papini
aggiunge. Giusto la premessa: un altro Dante, non il solito “companatico
di onesti professori o trastullo di ambiziosi dilettanti”. All’ora, 1933, in cui il fascistissimo compaesano
di Dante, forse stanco, cominciava a guardare all’Europa.
Questa
riedizione – in vista del settecentenario della morte di Dante fra qualche anno
- fa dell’europeismo, di Dante e di Papini, la ragione d’essere del libro, ma
non senza motivo. Dante è “vivo” anche perché il suo messaggio teologico e etico
è quello della chiesa del Novecento: non
più una struttura di potere ma un’istituzione impegnata a insegnare “ad
insegnar e agli uomini ad essere perfetti, sì da meritare la pace in terra e la
beatitudine in cielo”. E per il suo schieramento per l’impero, per l’unità dei
popoli – così come il suo critico, che qualche anno dopo, annota l’editore, “si
farà promotore in un celebre discorso per l’appunto di un’Europa unita”. Ma la
trattazione non è melensa.
Dante è antitaliano. Ma è anche il contrario, troppo italiano: litigioso,
individualista, vendicativo. È piagnucoloso. Soprattutto nella “Vita Nova”, dove si piange per
un terzo delle pagine. E lamentoso, di Firenze, dell’Italia, della sua storia,
delle donne, degli uomini, del mondo. È crudele. È giudice parzialissimo. Vendicativo
sempre. Papini si diverte a sollevare pietre d’inciampo. È superbo, si sa. E la
superbia è un peccato, di cui però lui si assolve. Si fa dare da Cacciaguida la
grazia infusa (“Paradiso”, XV, 28-30), “superinfusa”. Che si discuteva allora,
e poi per qualche secolo, se non fosse stata privilegio della Madonna, unico.
Subito, all’“Inferno”, IV, 100-102, si paragona a Omero, Orazio, Ovidio,
Lucano, Virgilio. Interpella e rampogna, condanna, elegge papi e imperatori,
cardinali, principi. Corti. Ma questo è quello che lo fa Dante, la “superiorità”
del poeta. Di un’arroganza che non dà fastidio.
È anche profetico: “Era nutrito, come tutti i
cristiani erano e dovrebbero essere, col midollo della Bibbia. Ma ho il
sospetto che si confacesse al suo spirito più il Vecchio testamento che il
nuovo. E nel Vecchio doveva sentirsi più vicino ai Profeti”. Per “quel bisogno
di avvertire, di ammonire, di minacciare, d’annunziare, in forma simbolica ma
spesso irata e cruda, tanto i castighi che le salvazioni future”. Papini trova
“le potenti fulminature d’Isaia e di Geremia” anche nelle lettere politiche.
Giovanni
Papini, Dante vivo, La Scuola di
Pitagora, pp. 348 € 25
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