Femminismo
–
Quattro bambini su dieci nascono negli Usa da donne single. Erano due su dieci
nel 1980.
Petroislam – L’Arabia Saudita ha investito
tra il 5 e il 10 per cento dei suoi enormi introiti da royalties petrolifere dal 1973 a oggi nel proselitismo dell’islam
wahabita, cui alcuni dei gruppi armati più radicali, dai salafiti a Al Qaeda si
riconducono. In Africa soprattutto in Senegal e nella fascia sahelica, con enorme
ritorno nel Nord della Nigeria - il Nord Nigeria è sempre stato islamico, ma
dal 1973 ha rapidamente preso un tono radicale intollerante, di cui Boko Haram
è una delle punte. In Asia specialmente in Malesia, dove ha investito almeno
due miliardi di dollari, in moschee, università, collegi coranici per i meno
abbienti, e scuole di arabo. Poco meno in Indonesia, il maggiore paese islamico
al mondo.
Populismo – Trionfa nei due paesi
guida del liberismo, Usa e Gran Bretagna, e gli economisti se ne preoccupano: si
moltiplicano gli studi econometrici e sociopolitici del fenomeno in Europa.
Alla luce della vittoria di Trump negli Usa, ma con particolare riguardo alle
situazioni europee, specie dopo l’inattesa vittoria della Brexit, la fuoriuscita
della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Tutti praticamente con un’ipotesi di
partenza e una conclusione di questo tipo: i movimenti antagonisti e
isolazionisti sono nati e si rafforzano per effetto della globalizzazione.
È la conclusione del convegno internazionale
lunedì a Milano all’università Bocconi sul tema “La globalizzazione a un punto
di svolta?”. Il dibattito si è impiantato sulla ricerca di Italo Cantone e Piero
Stanig, “Tre trade origins of economic nationalism: import competition and
voting behaviour in Western Europe”. Lo studio analizza dati del ventennio
1988-2007, fino quindi a prima del crac del 2007, ma già la correlazione era
forte: nazionalismo e protezionismo sono cresciuti abnormemente nel ventennio, soprattutto
nelle aree manifatturiere, le più soggette alla competizione globale. Negli anni
successivi, il fenomeno è da ritenersi accentuato e soprattutto “nazionalizzato”,
steso cioè anche a chi non è direttamente colpito dalla globalizzazione. Per il
reddito in contrazione, in assoluto e in termini di costo della vita. E per le
paure legate al’immigrazione di massa, e al terrorismo islamico.
Lo studioso inglese dell’immigrazione Christian
Dustmann, relatore al convegno, aveva già collegato in uno studio del 2015,
realizzato con Kristine Vasilijeva e Anna Piil Damme, “Refugee Migration and
Electoral Outcomes”, l’arrivo dei “rifugiati” in Danimarca alla crescita dei
partiti anti-immigrati ed anti-europei. Dove però, legando l’immigrazione di
massa all’asilo politico, diminuiva (circoscriveva)
il problema. Molti contestano – per esempio al convegno della Bocconi – la relazione
univoca dei nazionalismi con la liberalizzazione degli scambi. Ma si sottostima
l’ineguaglianza sociale e la crisi che la globalizzazione impone a ceti
crescenti. Il vecchio ceto medio, la cui reazione è stata evidente e vincente
nel referendum britannico sull’Europa, e poi nel voto per Trump. Nei due paesi-guida
del liberismo e della liberalizzazione.
Alla stessa conclusione, con terminologia e
argomentazioni di sinistra, arriva Carlo Formenti, “La variante
populista”. Un quarto di secolo di paghe basse e di incertezze non sono più una
transizione verso un assetto migliore, ma un assetto peggiorato: chiunque
prometta di combatterlo, non importa come, è benvenuto. Negli Stati Uniti di
Obama, si può aggiungere, la rilevazione è statistica che tra il 2007 e il 2016
il reddito disponibile si è ristretto, specie le paghe. E così pure la produttività,
che registra incrementi annui dell’1 per cento o meno: la massima potenza mondiale è minata da un’economia di servizi a
scarso o nessun valore aggiunto. Mentre molta produzione qualificata, inclusa
della Silicon Valley, emigra in Asia e in
Europa.
Sempre a sinistra, in altri ambienti, è da
tempo scontata la percezione, suffragata dal calcolo dei flussi elettorali, che
il crescente astensionismo politico è “di classe”: l’astensione è massima nei
quartieri abitati dai lavoratori. L’astensione non è qualunquismo, ma ha lo
stesso effetto.
Lo studio recente di L.Guiso, H.Herrera,
M.Morelli, T.Sonno, “Demand and supply of populism”,
ha un precedente
nei lavorio del ricercatore olandese Stijn van Kessel, autore nel 2013 a
Cambridge dello studio, “A Matter of Supply and Demand: The Electoral
Performance of Populist Parties in Three European Countries”, Polonia, Olanda e
Gran Bretagna. Preceduto due anni prima da uno studio sull’Olanda:
“Explaining the
Electoral Performance of Populist Parties: The Netherlands as a Case Study”. Col partito della Libertà di Pim Fortuyn e Geert Wilders in
primo luogo, ma all’interno di una costellazione di formazioni populiste.
Uno studio inglese del 2010, che analizza 21 elezioni nazionali in 7 paesi dell’Europa Centro-Orientale nei dieci anni dopo il 2000, rileva la corruzione come fattore scatenante del populismo. Sulla corruzione però si innestavano la disoccupazione e più in generale l’incertezza economica, del reddito Lo studio, firmato dallo studioso turco Mustafa Cagatay Aslan, dell’University College di Londra, individua una nuova categoria, i PRR, Populist Radical Right Parties, delle Destra Radicale Populista.
Sanità
Usa – È
privata. È il fondamento dell’ideologia americana del privato. È la più
radicale discriminante sociale. È irriformabile. E rischia di contaminare ora,
come tutto, i sistemi sanitari europei, che invece ancora sono improntati alla
legislazione bismarckiana, dell’obbligo per gli Stati di garantire per tutti le
opportunità sociali minime – il sistema della protezione sociale, diventato del
welfare nel’esperienza laburista di
governo britannico subito alla fine della guerra.
La sanità “pubblica” troppo costosa e troppo
burocratizzata (un groviglio di procedure) è tra i fattori che hanno
contribuito al successo altrimenti imprevedibile di Trump. Per la difficile e
controversa applicazione dell’Obamacare, il sistema di assicurazioni per una
sanità estesa – di cui è difficile e controversa ora anche la riforma da Trump
promessa. C’è voluta, e ci vuole, una lunga catena di volontariato, per “spiegare”
l’applicazione dell’Obamacare. Che è in fondo un’assicurazione obbligatoria. Per
quattro quinti a carico del governo federale e degli Stati, ma di nuovo onerosa
nel 2016, quando l’assicurazione è semplicemente raddoppiata. Ma la sanità
pubblica è cara perché tuta la sanità è negli Usa carissima. I costi sono
altissimi, la salute è più rigida discriminante sociale negli Stati Uniti.
La sanità, per quanto limitata agli abbienti,
prende negli Usa il 17 per cento del pil. Quasi il doppio dell’Italia, che pur
avendo un sistema non perfetto, garantisce le cure e i farmaci a tutti col 9
per cento del pil – l’11 per cento in Francia e in Germania. Si fa negli Usa il
300 per cento delle mammografie rispetto alla media dei Paesi Ocse, i paesi più
sviluppati, il 250 per cento di risonanze magnetiche, il 33 per cento di parti cesarei
in più. Con costi unitari che sono mediamente il doppio rispetto alla media dei
paesi Ocse. Anche i prezzi dei farmaci sono il doppio. Le visite specialistiche
sono ancora più care, mediamente il triplo.
Si fronteggiano questi costi con assicurazioni
private, che per questo sono onerose. Da qui anche la difficoltà di garantire
una qualche assistenza a 40 per cento della popolazione che non può permettersi
un’assicurazione. Difficoltà aggravate dalla riforma del Welfare voluta da
Clinton nel 1996. Che è consistita essenzialmente nella liberalizzazione dei
fondi federali distribuiti agli Stati: non più trasferimenti di fondi da
Washington agli Stati indirizzati specificamente al Medicare e Mediaid, nonché
ad altre forme di assistenza ai meno abbienti, ma trasferimenti a fondo perduto
agli Stati, liberi poi questi di utilizzarli secondo i loro propri programmi –
secondo le maggioranze politiche che li governano.
Velo – La sentenza della Corte
Europea contro il velo indossato da due impiegate in azienda in Francia e in
Belgio – la sentenza dà ragione ai datori di lavoro delle due donne, che per
questo le hanno licenziate – potrebbe avere riportato la questione sul suo
terreno: non della religione, con la quale il velo cosiddetto islamico ha poco
da vedere, eccetto il parere di qualche mullah, ma dell’opportunità politica.
Che è quello su cui il ritorno al velo – per la gran parte delle immigrate è un
ritorno e non una consuetudine, spesso anzi dopo un periodo di rifiuto
polemico, nei confronti della famiglia e\o della tradizione. Il velo è un
simbolo culturale, se si vuole, e una pratica, agitata però come una sfida. Il
datore di lavoro può ritenere che una lavoratrice che ogni mattina si propone
di sfidarlo non sia di fiducia.
astolfo@antiit.eu
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