giovedì 23 marzo 2017

Il mondo com'è (298)

astolfo

Derivati – Una “bomba” creata da Clinton, così come la crisi bancaria del 2007, effetto della radicale deregolamentazione da lui decisa. Quanti sono i derivati, dove sono e come andrà a finire nessuno lo sa: questa estenuazione della tecnica finanziaria produce effetti e mano a mano che viene a scadenza: come un sasso lanciato in aria che colpisce dove capita. Tutti gli enti locali e le banche che vi avevano fatto affidamento ci hanno rimesso – a vantaggio unicamente dei fondi hedge. E il peggio, si pensa, deve ancora venire.
È uno dei lasciti della presidenza Clinton, che coi banchieri Rubin e Summers, suoi ministri del Tesoro, deregolamentò all’eccesso banche e istituti finanziari. In un documentario per la Pbs (Public Broadcasting Service), il network americano di tv pubbliche, “The Warning”, visibile su youtube, un ex consigliere d’amministrazione dell’ente pubblico deputato al controllo dei futures, a Commodity Futures Trading Commission, Michael Greenberger, ricorda così i controlli: “Zero trasparenza, nessun obbligo di riserva di capitale, nessun limite alle frodi né alla manipolazione del mercato, zero regolamentazione degli intermediari”.

Femminismo – Ha avuto ragione d’essere soprattutto nei paesi anglosassoni, soprattutto nelle professioni liberali, professionali e manageriali. E cioè nella cultura che si professa all’avanguardia di tutte le libertà. Parte di tutto il processo produttivo, in fabbrica e nei servizi, a carattere manuale, le donne  erano escluse fino alla guerra dalla professioni e dalle carriere, sia nel settore pubblico che nel privato, tecnico o manageriale. In Gran Bretagna furono poco tollerate e poche all’università fino alla seconda guerra mondiale. Negli Usa fino agli anni 1960 – se non in università separate, di poco spessore didattico (con l’eccezione di Chicago, che la donne ammise ai corsi subito dopo la sua fondazione nel 1892), e a uso personale e familiare, non di preparazione alla vita pubblica. Tutti gli anni 1960, che pure furono quelli della contestazione giovanile e studentesca, videro una resistenza strenua delle istituzioni universitarie, e per esse delle tre grandi, Harvard, Yale e Princeton, alla “coeducazione”. All’ammissione cioè delle donne  agli stessi corsi, con gli stessi sviluppi, degli uomini. I primi corsi aperti alle donne datano a Harvard dal 1963, a Yale dall’autunno 1967, a Princeton l’anno dopo.
Harvard aveva un college femminile, il Radcliffe. Fondato nel 1879 come Harvard Annex, il Radcliffe restò però totalmente separato. Anche quando, a partire dal 1940, fu avviata la coeducazione: le femmine potevano frequentare i corsi dei amschi ma nel rapporto di una a quattro. E non avevano accesso alla biblioteca: maschi e femmine non potevano studiare insieme, ma a questo effetto le femmine venivano private della biblioteca.
Princeton si aprì alla coeducazione dopo che nel 1968 un buon numero di matricole ammesse, 132, tutti maschi naturalmente, optarono all’ultimo per Harvard a motivo della mancata coeducazione. Per lo stesso motivo, il calo delle iscrizioni,Yale aveva ceduto nel 1967: “La nostra preoccupazione non è tanto quanto Yale può fare per le donne ma quanto le donne possono fare per Yale”, annunciò il presidente del’università, Kingman Brewster. Che accentuò pressioni e concessione al Vassar Colle, altro college femminile di prestigio come il Radcliffe, perché si trasferisse a New Haven.

Islamismo – Il radicalismo islamico è un prolungamento – e un rovesciamento – del radicalismo europeo dei passati decenni? Era la tesi peregrina di Ernst Nolte, lo studioso del fascismo, sempre teso a cercare precedenti alle ignominie europee del Novecento (ma in questo caso a prolungarle nel mondo islamico), ma anche di un islamista riconosciuto come Olivier Roy, oggi docente all’università europea di Firenze, dove dirige un gruppo di studio Middle East Direction. Roy, famoso per aver sostenuto che “non serve a niente conoscere l’arabo per lavorare nelle periferie popolari”, amplia questo concetto anche al terrorismo: non è di diversa natura del ribellismo europeo e occidentale, giovanile, frutto di deprivazione e abbandono. In contraddittorio con Gilles Kepel, altro islamologo francese, su “La lettura”, sostiene che la violenza islamica è la stessa delle periferie urbane americane e europee. E insomma che l’islamismo, inteso come mobilitazione violenta e dogmatica dell’islam, totalitaria, anzi imperialista, poiché porta la guerra negli Usa e in Europa, a tutto l’Occidente, è un falso concetto. L’islam non c’entra, “le biografie dei terroristi mostrano come essi non abbiano una formazione religiosa”. Sostiene anzi che “gli islamisti (cioè i Fratelli Mussulmani) non sono mai passati al terrorismo, e quando li si lascia entrare nel gioco democratico si rivelano elementi di stabilità come in Giordania, Tunisia, Marocco” – dimenticando però che Giordania e Marocco sono due monarchie molto autocratiche, e che i Fratelli Mussulmani hanno fatto molto terrorismo per prendere il potere in Egitto e in Tunisia, e in Egitto anche dopo aver vinto le elezioni.
All’estremo opposto, con Kepel e Alexandre Del Valle, il geopolitico della nuova destra francese, Daniel Pipes. Già professore a Harvard, una formazione al Cairo all’avvento di Khomeini a Teheran, e una buona dozzina di libri sull’islam. Da “In the Path of God”, 1983, che tracciava l’islam politico nei suoi 14 secoli di storia, al recente “Militant Islam reaches America”. Oggi presidente del Middle East Forum, che pubblica un “Middle East Quarterly”.
Daniel Pipes viene bene per capire la politica di “confronto” aperta da Trump con l’islam radicale. La sua divisa sembra accomodante: “L’islam militante è il problema, l’islam moderato la soluzione”. Ma senza sottovalutare l’islam nel suoi insieme. La cui radicalizzazione, indirizzata nell’ultimo quarto di secolo contro l’Occidente, contestualizza con più realismo. Da qui le sue conclusioni più citate, da islamofobo – appellativo che rifiuta. La più citata recita: “L’islam militante deriva dall’islam, ma è la sua versione misantropica, misogina, trionfalista, millenarista, antimoderna, anticristiana, antisemita, terrorista, jihadista, e suicida”. Temperata dalla constatazione: “Fortunatamente, richiama solo tra il 10 e il 15 per cento dei mussulmani, e questo significa che una sostanziale maggioranza preferirebbe una versione più moderata”. Ma non è finita, il ragionamento si conclude così: questa “ideologia totalitaria”, anche su arruola “solo” un 10-15 per cento (grosso modo 100-150 milioni in tutto il mondo) dei mussulmani, “si ritiene il solo rivale, e l0inevitabile successore, della civiltà occidentale”.  
Nell’insieme, già nel 1994, con l’11 Settembre impensabile, ma col khomeinismo saldamente in campo, Daniel Pipes così sintetizzava il suo tema  di studio: “Il Medio Oriente sempre più emerge come una regione che sviluppa ed esporta problemi, inclusi radicalismo politico, terrorismo, droga, armamenti non convenzionali, e teorie cospirative”.

Manca singolarmente agli islamologi la considerazione dell’11 settembre come l’evento epocale che fu, ed è, per il mondo islamico tutto: non una Pearl Harbour ma un Blitzkrieg spettacolare, vinto senza resistenze. Manca pure la fanatizzazione diffusa, in tutti i paesi europei, Italia compresi (Amri e altri), e negli Usa, di un’infinità di “cani sciolti”. Anche presso le comunità islamiche più integrate e meno “identitarie”, in Gran Bretagna e negli Usa. Con l’adozione di facili attacchi, come il mezzo motorizzato da Nizza in poi. Tutti segni non di isolamento o follia ma di psicologia e intendimento comuni.

astofo@antiit.eu

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