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sabato 25 marzo 2017

Il romanzo nero del Giappone

Il romanzo storico della fine del cristianesimo in Giappone, duramente perseguitato per mezzo secolo, tra il 1590 e il 1640, dopo aver potuto mettere radici – in qualche modo perduranti, l’autore è nato cattolico, uno di mezzo milione, con tre università, di cui una, quella gesuita, tra le prime – nel mezzo secolo precedente con missionari portoghesi. Dell’ultimo di questi, il gesuita Ferreira, giunge notizia in patria che abbia abiurato. Tre giovani confratelli decidono di partire per appurare la verità. Sarà un viaggio verso il martirio o l’abiura:  i tre diventano due, poi uno. Del quale sapremo alla fine che è morto giapponese. Ma in prigione, sempre sospettato dal governo di Edo-Tokyo di esercitare l’apostolato di nascosto.
Lo shogun Oda Nobunaga favorisce i cristiani, per ridurre il potere clericale dei bonzi buddisti. Nel 1549 Francesco Saverio sbarca a Kagoshima. Ma nel 1587, cinque anni dopo la morte di Nobunaga, lo shogun suo successore Hideyoshi lancia sporadiche persecuzioni dei cristiani. Alla morte di Hideyoshi nel 1598, Ieyasu avvia la serie di shogun Tokugawa, che i cristiani destinano alla cancellazione – a metà Seicento l’opera si può dire completata. Gli shogun sono i dittatori militari che hanno governato il Giappone dal Medio Evo fino al 1868, quindici anni dopo l’arrivo del commodoro Perry con la flotta americana e l’“apertura” obbligata del Giappone al commercio internazionale, avendo perso quell’anno il confronto interno con la dinastia imperiale Mejji, che restaurò i suoi poteri con Mutsuhito, l’imperatore che regnerà mezzo secolo e farà grande e ricco il paese.
Il film di Scorsese, pur seguendo il romanzo scena si può dire dopo scena, dialoghi compresi, ne ha fatto un dramma corale. Sullo sfondo, inevitabile, dello “scontro di civiltà” – della caccia al cristiano in corso nel Vicino Oriente islamico. Il romanzo è un po’ slegato: lettere impossibili da scrivere, con dialoghi impossibili da tenere fra lingue diverse, interrotte a un certo punto da una narrazione semplice in terza persona, e infine da diari di lavoro, di un agente di commercio olandese e del guardiano della prigione cristiana. E un po’ monotono: lo stesso evento –clandestinità e tortura – si riproduce a catena, dipanata da un giuda immondo, un battezzato che tradisce di continuo. Ma ha due fili conduttori avvincenti.
Uno è della speranza. Che i preti cattolici hanno introdotto, a beneficio dei poveri e poverissimi, che in Giappone erano all’epoca tutti. Eccetto i signori feudali che li tenevano in schiavitù, a morire di fame, e per di più tassandoli duramente. Endo fa un quadro sorprendente del Giappone nel Seicento, di brutalità e disperazione – piove sempre, il cielo è scuro, si vive nel fango, il pesce puzza, il mare è grigio e ostile (“se Dio non esiste, come l’uomo potrebbe  sopportare la monotonia del mare e la sua crudele indifferenza?”). I preti sono i primi a portare un po’ di luce, in un mondo che i bonzi buddisti considerano di bestie. Ancora due secoli ci vorranno perché il Giappone si apra – si apra all’Occidente, questo non è detto, ma la speranza viene da qui.

Arnold Toynbee ha su questo aspetto una spiegazione di segno opposto, ne “Il mondo e l’Occidente”. Il governo giapponese, afferma, non temeva tanto le conversioni, ma che la conversione stessa non fosse un atto di fanatismo, e quindi di pericolo per lo Stato, per la possibilità che il fanatico tradisse: “Ciò che temevano gli statisti giapponesi era che i compatrioti che questi missionari stranieri andavano convertendo al cristianesimo occidentale assorbissero lo spirito fanatico della religione adottata e, sotto questo influsso demoralizzatore, si lasciassero adoperare a mo’ di «quinta colonna», come diremmo oggi in Occidente”. Una ricostruzione senza fonti e una spiegazione non circostanziata, probabile esito del pregiudizio antireligioso dello storico.
L’altro filo, più sottile (e quello che aveva colpito Scorsese già da tempo - nel suo piccolo anch’egli, generazionalmente, in colpa con la fede, col linguaggio in cui è cresciuto), è della fede che confluisce all’abiura. Sotto la forza (torture, esecuzioni) per la gran parte del romanzo, con la persuasione alla fine. In un jeu de dupes al confine tra la convinzione, l’indifferenza, la furbizia. Non è contro l’ordine giapponese che il giovane missionario alla ricerca del padre Ferreira ha lottato, “se n’era a poco a poco reso conto”, dice il narratore, “ma contro la sua propria fede”. L’apostasia non dal Cristo ma dalla chiesa: “I suoi fratelli in religione non mancherebbero di condannarlo in nome del sacrilegio”, il narratore lo fa riflettere, “ma se tradiva loro, non tradiva il suo Signore. Lo amava altrimenti che prima”.  
Shusaku Endo, Silenzio, Corbaccio, pp. 224 € 16,40


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