Il “New Yorker” lo apparenta a “The
Crown”: la serie Netflix sulla saga di Elisabetta d’Inghilterra richiama al settimanale
quella di Michael Corleone, il figlio che gli eventi mandano al potere. Ma
allora in bianco e nero, senza cavalli né cani, e con personale in qualche modo,
sinistro – grasso oppure ossuto, nano o gigantesco, finto gioviale oppure
grifagno magro : non tutto il potere è uguale. Senza contare che Elisabetta è
la regina più longeva della storia, mentre non ci sono mafiosi longevi, se non
in carcere.
Una guerra di mafia poi non è allegra. Nemmeno
la pace di mafia. E per cinquecento fitte pagine sono troppo, l’una e l’altra,
per quanta fanatasia si dispieghi con gli assassinii e gli assassini. Monocorde,
stancante. Si salvano la giovane wasp innamorata del giovane mafioso all’università,
e l’unica scena non mafiosa, della stessa giovane Kay con i suoi genitori wasp.
Con un bruttissimo Fontane-Sinatra, molle, “venduto”, anche brutto – una cattiva
azione, questa del Sinatra ridotto a piccolo mafioso. Una stracca etnografia,
soprattutto. Che purtroppo ha modellato la Sicilia, e anche Napoli, in maniera,
sembra, indelebile. Piena tra l’altro, nell’originale, di urtanti errori: il mispelling
di tutti i riferimenti siculo-napoletani, una Constanzia per Connie, invece di
Concetta, l’innamoramento in Sicilia come “colpo di fulmine”, tutto molto
ridicolo, e le donne tutte stupide in cucina, la futura “donna del Sud”.
Sarà la stessa di “The Crown” la noia,
la ripetitività: le “famiglie” tendono a chiudersi, se il narratore non è un
buon scassinatore. A rileggerlo, cancellando il Corleone-Marlon Brando di
culto, questo atto di nascita del genere mafia che ci domina, noi lettori, noi
del Sud, e tutto il mercato librario, è un lungo articolo di cronaca nera e un
pessimo (superficiale, noioso) saggiodi mentalità, peggio perfino di Saviano. Una
storia delle storie di criminalità organizzata, degli archivi di cronaca nera.
Mario Puzo, Il Padrino, Corbaccio, pp. 450 € 17
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