giovedì 23 marzo 2017

La mafia dell’antimafia

Il titolo è un gioco di parole, sul gergo legalistico, ma in questo suo ultimo libro Sciascia si diverte poco. È qui questione di mafia, ma più della mafia dell’antimafia, già allora, articoli e interventi che ha selezionato su questo tema specifico: “Questo libro”, avverte, “raccoglie quel che negli ultimi dieci anni io ho scritto su certi delitti, certa amministrazione della giustizia; e sulla mafia”. Aggiungendo: “Spero che venga letto con serenità”, ma beffardo, sapeva che non poteva esserlo.
Con alcune bordate. L’antimafia è “strumento di potere”, attraverso al tensione che crea e alimenta – chiunque vive al Sud lo sa. Il suicidio di Rosario Nicoletti è un esito della “cultura del sospetto”, allora di scuola a Palermo, tra i gesuiti e fuori – Nicoletti era il presidente democristiano della Regione che Sciascia apprezzava per l’onestà. Del generale Dalla Chiesa, assassinato qualche anno prima nell’agguato di Palermo, continua a non apprezzare i metodi investigativi. Di più, qui si dispiace che il generale si fosse appropriato dell’identità del capitano dei carabinieri Bellodi che è un po’ l’eroe del “Giorno della civetta” – il modello, spiega in dettaglio, è l’allora maggiore Candida. È l’effetto di una polemica bruttissima sollevata contro Sciascia dal figlio del generale, il sociologo Nando. Per ultimo un rimbrotto a Scalfari, che non lo aveva difesa in quella polemica – benché fratello probabile di massoneria. E una testimonianza umana e civile in favore di a Adriano Sofri accusato di omicidio.
Senza perdere l’umore. “Il giorno della civetta” dice un’illuminazione a “una seduta cui avevo assistito alla Camera dei Deputati”. Il “boss dei boss” Michele Greco è preso appena ricercato. Uno. Due: in confronto a Licio Gelli il suo potere è minimo. O gli eroi della “sesta” giornata, a cose fatte. Con molta cognizione di causa. “La mafia” è già un dramma di Luigi Sturzo giovane prete, 1900, “rappresentato in un teatrino di Caltagirone”, mezzo disperso nel lascito. Resta insoluto il mistero della parola “mafioso”, da Manzoni registrata nel “Don Chisciotte” - “quando si imbatteva in parole o espressioni ancor vive nel dialetto milanese” - che però in Cervantes non si trova.
Sciascia amava le polemiche, e per questo le sue raccolte non narrative oggi si fanno insieme leggere e rifiutare. Senz’altro aveva conoscenza diretta e avvertita delle cose di cui qui parla: la mafia e la politica italiana. Ma giudizio non sempre acuto. Specie in fatto di mafia. Qui richiama con orgoglio la sua definizione del 1970 (nella prefazione a Henner Hess, “Mafia”), che, è vero, resta la più esaustiva: “La mafia è un’associazione a delinquere, per fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria e imposta con mezzi di violenza tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo stato”. Ma ne trae una conclusione sbagliata: ora la mafia non è più intermediaria ma soggetto attivo, e nell’intermediazione tra il cittadino e  lo stato non gode più della stessa sicurezza di cui godeva prima. Il che è vero. Ma non nella parte finale: da qui l’eversione, l’attacco allo stato, con gli assassinii di Terranova, Reina, Mattarella. No, non eversione, ma “avvertimento”, da gergo mafioso: tentativo di ricreare la vecchia situazione, facendo paura al ceto politico che lo Stato aveva a sua volta impaurito – le vicende degli ultimi presidenti della regione Sicilia prima dell’attuale lo confermano.
Un riesame del tutto fuorviante aveva peraltro proposto subito dopo l’introduzione  a Hess, nel 1972, in un testo ripubblicato ora come “Storia della mafia”, su “Storia illustrata”. Con le due mafie, la buona e la cattiva. Con l’eroicizzazione dei mafiosi – alcuni, certo, non tutti. Con lo Stato-mafia già allora. Con una storia molto sicula (“traggediatrice”) dei Mille, di incredibili forzature – i “picciotti” mandati a Garibaldi dai capimafia è una delle tante (mandati per infeudare l’isola al “Nord commerciale e industriale”, proprio così). Lo scrittore era orgoglioso, nella corrispondenza con Calvino e Einaudi, di aver fatto della mafia per primo materia narrativa. M il tutto mafia è anche peggio della mafia dell’antimafia, e anzi ne è il cardine.
Il titolo, oltre che tribunalizio, fu anche “effettuale”, parola che Sciascia amava: ai primi di novembre del 1989 licenziava la raccolta, il 20 era morto.
Leonardo Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Adelphi, pp. 205 € 24

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