Non è “l’America”, voleva dire Friedman,
quella degli emigranti, di fatto e intellettuali, di mezzo mondo. Ma è
l’America di oggi, e probabilmente di ieri. Che non si nascondeva ma non
contava, sotto la cappa della correttezza politica, delle “magnifiche sorti e
progressive”, malgrado il crac del 2007, e mezzo secolo di guerre: “Per oltre
cinque decenni l’America ha conosciuto livelli semrpe crescenti di violenza, in
casa come fuori. La nazione è passata di shock in shock, e alla fine abbiamo
avuto la sensazione di non poter più subire oltre”.
Non è un libro trumpiano, anzi. Si apre
col solito catalogo di vituperazioni. Friedman non fa eccezione per “tutto
quello che vorremmo sapere su Trump”: ci rinvia alla serie sterminata di
rivelazioni e sdegni della correttezza politica. Stucchevole, anche se cita una minima
percentuale delle migliaia di articoli che ogni giorno si vomitano su Trump.
Succede col neo presidente Usa come fu con Berlusconi, oggetto per anni di
centinaia di libri e migliaia di articoli che ne facevano di tutto, anche
importatore di droga, mafioso, stupratore, ma non quello che vinceva le
elezioni – un problema della sinistra: la gente paga e si emoziona per sentirsi
dire (suffragare) quello che le piacerebbe? Ma il giornalista ha fiuto. Quando
dice Trump “uno del Queens”, riccone ma di periferia, snobbato dalla puzza al
naso dell’Upper East Side di Manhattan. Né manca di rilevare, seppure in una
riga, la squallida campagna elettorale di Hillary Clinton, specie contro
Sanders.
Il suo pregio è di avere viaggiato per
il paese durante la campagna elettorale. Che lo mette in grado di produrre
un’istantanea degli Usa oggi, non soltanto la solita compilazione delle battute
del neo presidente. Oltre ai capitoli, professionalmente molto curati,
sull’America che ci possiamo aspettare con Trump: i banchieri di Goldman Sachs
al comando, presentati uno per uno; il Big Oil, l’industria petrolifera al
primo posto nei piani di Trump; una radicale deregolamentazione ambientale; il
business delle armi per difesa personale; le incertezze della politica estera,
sia militare che commerciale, anche nei rapporti con Putin. Su questo aspetto
un capitolo forse ingeneroso è aggiunto, ma sicuramente da leggere, sull’“inesistenza”
dell’Italia a Washington. Né manca, purtroppo, la liberazione della Sicilia nel
1943 a opera della mafia.
L’American Dream Friedman ha sempre
considerato, dice, retorica. C’era forse, spiega, negli anni del boom, 1950-1960, poi non più, se non eri
bianco o comunque ceto medio. Ma ora non trova più capacità di resistenza, né
solidarietà. L’America profonda ha scoperto imbruttita, impaurita, astiosa, e
la racconta in varie storie, di rifiuto, emarginazione, desolazione.
Inframezzate da incontri con l’America che conta, incluso il futuro presidente
eletto. E da dati finalmente significativi sulla reale condizione di vita delle
masse in America. Sottopagate. Con una misera e comunque costosa assistenza
sanitaria – l’assistente sociale volontaria non crede che in Europa i poveri
siano curati gratis, allo stesso modo dei ricchi. Ottima – l’unica disponibile
– è la presentazione che Friedman riesce a interpolare della sanità Usa, dai
costi e dalla procedure che sarebbero incredibili se non fossero vere, compreso
l’Obamacare, l’assicurazione media allargata che Obama ha voluto.
Un’America
da Terzo mondo
E all’improvviso un’altra America
emerge, dietro la superpotenza mondiale, curiosamente affine al Terzo mondo,
dove il lusso costeggia la miseria, Addis Abeba, Bangkok, Rio de Janeiro.
Un’allucinazione, uno degli effetti perversi del fenomeno Trump? No, Friedman,
tornando a casa, scopre solo macerie. Il Delta del Mississippi, 400 chlometri
quadrati, poco meno, di squallore. Gli Appalachi del West Virginia, la
desolazione. Un regime di lavoro arbitrario, paghe, orario, precarietà, primo
Ottocento.
È indigente un americano su tre – e se
occupato ha bisogno in troppi casi di tre lavori per campare: “43 milioni di
americani, pari al 13,5 per cento della popolazione, vivono sotto la soglia di
povertà, e un totale di oltre 100 milioni, corrispondenti al 32 per cento della
popolazione, ricade nella categoria dei lavoratori indigenti”. Sopravvive con
l’assistenza pubblica un bambino su cinque, il 20 per cento: 14,5 milioni di
bambini vivono sotto la soglia dela povertà, 2 milioni in condizioni di estrema
povertà.
Un sistema che si manga la coda. “I salari
bassi costano ai contribuenti più di 150 milioni l’anno”, di spesa sociale, per
buoni pasto, medicine etc.: esattamente “152,8 miliardi di dolari l’anno per
finanziare le famiglie dei lavoratori che hanno beneficiato dei quattro programi
di sostegno alla base del welfare: il
Medicaid, l’assistenza temporanea alle famiglie in difficoltà, i food stamp e i crediti d’imposta”. Uno
su due occupati nei fast food
sopravvive con la carità pubblica, food
stamps e Medicaid. “Il maggior datore di lavoro degli Stati Uniti,
Walmart”, 400 mila dipendenti, “paga i suoi lavoratori, se includiamo anche
quelli part-time, una media di 8,80 dollari l’ora…. Nel 1955, quando il maggior
datore di lavoro era la General Motors, pagava i suoi lavoratori, in media,
l’equivalente di quelli che sarebbero oggi 37 dollari l’ora” – il calcolo è di
Robert Reich, professore all’università di California, che fu ministro del
Lavoro di Clinton e ha fama di sinistra incondizionale, presidente di Common
Cause, ma il suo best-seller s’intitola “Come salvare il capitalismo”. E negli
Usa c’è il triste istituto del fallimento individuale, quando non si riesce a
pagare più l’affitto, gli acquisti a credito, medici e medicine.
Di Trump Friedman è stato profeta, sul
“Corriere della sera del 18 febbraio 2016, quando il futuro presidente era solo
un arricchito e un balordo outsider,
evidentemente se ne intende. E ora consiglia di non prendere Trump sottogamba:
l’America lo ha cambiato e lui cambierà l’America. Una rapporto biunivoco che a
suo giudizio avrà brutte conseguenze, per gli americani e per gli altri. “Donald Trump (purtroppo) va preso sul
serio. Mai visto tanto squallore nella politica Usa”. Non in Trump, nella sua
retorica. Nella politica di base, sul territorio, nella situazione
socio-politica. La crisi ha denudato il liberismo,
l’indigenza è diffusa, il risentimento deborda.
Si spiega insomma la sorpresa Trump. Su
cui però il giudizio alla fine Friedman riporta pessimista: Trump non risolverà
nulla, non migliorerà nemmeno, e anzi peggiorerà. Se Trump farà “anche solo la
metà delle cose che minaccia”, tra quattro anni gli Usa avranno cambiato volto,
ma in peggio. Un vaticinio – per fortuna? – da tarare con la superficialità,
diciamo con l’irruenza, Friedman non si sottrae alla psicosi Trump. Del tipo:
Putin è un giocatore di scacchi, sopraffino, Trump “è un imprenditore rozzo e
superficiale di New York arrivato alla Casa Bianca dopo essere stato la star di
un reality Tv”. Dopo aver documentato una serie di errori e superficialità
della campagna elettorale democratica, e delle amministrazioni dell’ultimo
quarto di secolo, per due terzi democratiche. O fa colpa massima a Trump di
avere detto: “Se i rifugiati continuano a riversarsi in diverse parti dell’Europa
credo che sarà molto difficile tenere insieme l’Unione”. Che è l’evidenza.
“Surreale” è un aggettivo che Friedman
usa spesso. Ma più surreale di tutto è il voto americano deciso o influenzato da
Mosca. È il fatto perverso dell’informazione liberal su questa elezione, di darsi la zappa sui piedi, chiudendo
orgogliosamente gli occhi.
Alan Friedman, Questa non è l’America, Newton Compton, pp. 348, ill. € 12,90
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