“Sgravi
al Sud, perché costano tanto e fanno anche danni”, è la perorazione di Alberto
Brambilla sul “Corriere della sera Economia”. Che lo presenta come “Presidente
Itinerari Previdenziali”, istituzione inesistente, evitando di dire che è stato
al governo, sottosegretario o vice-ministro, con la Lega.
L’argomento
che è gli sgravi contributivi – di questo si tratta – vanno bene al Nord ma non
al Sud.
L’ulivo
“sogno della marina” dice Gadda (“I nuovi borghi della Sicilia rurale”, 1941,
ora in “I Littoriali del Lavoro”).
“L’umiltà
è una virtù per la quale il Sud non brilla”, Flannery O’Connor (“Sola a
presidiare la fortezza”, 108).
È
il Sud condizione e modo di essere a tutte le latitudini?
In
un articolo giornalistico, il futuro semiologo Marshall McLuhan dei “mezzi del
comunicare” (de “il mezzo è il messaggio”) trova nel febbraio 1954 che al Sud
degli Stati Uniti “le convenzioni
diventano una condizione per la sopravvivenza”. La scrittrice georgiana
Flannery O’Connor è colpita da questa osservazione, “per quanto è vera”. Ma ormai,
dice, è “fuori contesto”: “Ormai al Sud quel poco che rimane delle convenzioni
è morto e sepolto”.
Rimane
il colore. Ma “il colore locale è veleno”.
Si
va al Nord nella polvere, nel romanzo di guerra Lernet-Holenia “Marte in Ariete”.
Il reggimento muove da Vienna per invadere la Polonia nel settembre 1939, e la
sola nota rimarchevole è questa: “Qui cominciava la regione della polvere. Da
qui si estendeva fino all’Ungheria e, attraverso la Polonia e l’immensa Russia”,
fino “all’altro capo dell’Asia, dove la terra si rituffa nel mare”.
L’Asia
finisce alle Alpi (e al Reno?).
Gadda in Sicilia
Gadda,
mandato in Sicilia dalla “Nuova Antologia” e “Le Vie d’Italia” a gennaio del 1941 per celebrare le bonifiche,
di cui il regime andava fiero, vi rifà in breve e con acume la teoria del feudo
e dell’abbandono, legandola come’è più giusto ai territori desertici e non al
cattivo feudatario (la sua analisi si può leggere nella raccolta di testi
giornalistici recuperati dalla filologa Manuela Bertone in “I Littoriali del
Lavoro”): “Vasti pianori assolati, privi di corsi d’acqua e scarsi di
circolazione idrica subumale”, e per di più insalubri, da cui il contadino
rifugge, ritirandosi nel villaggio, e più distante meglio.
“In
realtà il latifondo di Sicilia è legato a una fattispecie complessa. E devesi
anzitutto individuare, entro il raduno delle cause, la natura dei terreni che
andarono a costituir feudo”. E giù in una sola pagine tutti gli estremi della
complessità, quale non si trovavano e non si troveranno negli scrittori
siciliani che volevano conoscere la loro terra, Pirandello, Tomasi di
Lampedusa, lo stesso Sciascia che ci abitava.
I
terreni sono argillosi, “d’argille di molto più compatte e fosforiche di quel
che non risulti alla marra ed al seme la duna quaternaria dell’agro pometino o
dei calanchi appenninici fra Toscana e Romagna”. Per metà. “Per l’altra metà
sono terreni di medio impasto, atti quindi alle semine e alle colture
cerealicole”. Non intensive cioè. Questo è solo l’inizio del “raduno delle
cause”. Nove, paragrafate, annotazioni spiegano come, su questi terreni, la
colture si sono impoverite. E come si sono organate attorno al gabelloto,
l’intermediario “che affitta dal principe a conto proprio per subaffittare ai
coloni o talvolta per cedere a lavoro”.
Il feudo è il
deserto
Non
un sistema feudale – non nel senso del feudo inteso come sfruttamento. Ma una
divisione della povertà, tra una proprietà remota e di pochi mezzi, una
campagna di poveri e poverissimi, fittavoli, coloni, bracciati, e il gabelloto.
Una figura che giusto Gadda vede nella sua “complessità”: “Il disinteresse del
principe lontano, la pazienza dei poveri sembra abbia consentito alla specie
«gabelloto» configurarsi in alcune
dimensioni non del tutto o non sempre encomiabili nelle distrette di una
contingenza assai ardua. Del resto sono uomini esperti del vivere e figli in
certo modo della durezza, dotati molte volte di capacità direttive, conoscitori
della terra, pratici del mestiere (mestieraccio) nonché dell’ambiente, che
portano su di sé la rampogna dei pochi e assenti, e la rancuna dei molti e
presenti, e affaticati, in un’economia affaticata”. Anche molto ben scritto,
malgrado ristrette e rancune: esatto.
En passant, testimone di
un’altra civiltà pubblica, benché fascista. “Otto borghi sono stati costruiti
in un anno”. E: “In un anno di lavoro 2507 case coloniche sono state costruite
e si aprono oggi a ricevere i lavoratori della terra. Trecento sono in
costruzione”. Negli “otto borghi
rurali”, creati in “ognuna delle otto (ma erano già nove, n.d.r.) province di
Sicilia”, sorgono “la chiesa parrocchiale con l’abitazione del parroco; la
scuola con le abitazioni delle maestre;
la delegazione della podesteria per i servizi di Stato civile; la sede
del Fascio e delle organizzazioni dipendenti; la collettoria postale, con telegrafo
e telefono; la stazione dei Reali carabinieri con gli alloggi; la Casa di
sanità, ove avranno a risiedere il medico chirurgo, la levatrice, un assistente
sanitario; dov’è allogata la farmacia, dov’è un posto di medicazione, e alcune camere
di degenza; una locanda con alloggi, una rivendita di generi vari; e botteghe
per artigiani e relativi quartieri: e ancora gli uffici dell’Ente per la
colonizzazione con la Casa del personale”.
Il
tutto commissionato ad architetti siciliani: Mendolia, Caracciolo, Marino,
Marletta, Baratta, Manetti-Cusa, Gramignani, Epifanio. “Perché i nuovi aspetti
dell’edilizia rustica aderissero «ab auctore» al clima, al colore, al genio
dell’isola, pur nei modi e nelle forme onde suole estrinsecarsi il disegno
«funzionalistico» del nostro tempo”. Con risultati encomiabili - non era ancora
tempo di leghismo, l’apprezzamento di Gadda, ripetuto più volte, qui fila
sincero - “in forme che segnano un «optimum : delle possibilità scenografica e
pittorica, come presso la cubale Trapani, a Borgo Fazio, di Epifanio, o nel
montano Borgo Giuliano, di Baratta, in provincia di Messina”. Un pezzo vivo,
“antico e nuovo”, di “storia mediterranea”: “Davvero le forme han corrisposto,
per felicità intera e nativa, all’aspettazione ed alla fede. Ho veduto i raduni bianchi dei cubi nella immensità della
terra, quasi gregge portatovi da Geometria: e una limpida disciplina di masse,
riquadri, diedri, gradi; e li avviva una grazia semplice, un’opportunità
dell’atto, una speranza. E mi parvero già custoditi dal senno: non nati
dall’arbitrio tetro, come può accadere a chi ha matita tra mano da fare i
rettangoli, e soltanto matita. E vi erano brevi, puri portici: tinti alla calce
i volti, i pilastri: e a sfondo il sereno. Archi a sesto, campiti di turchese…”.
E le ombre nel cortile, “come ore”.
Lo scrittore del
Sud
“Mi
irrita sempre mortalmente la gente che del Sud” non sa niente, “e forte di
tanta ignoranza consiglia agli scrittori del Sud di andarsene e di dimenticare
il mito. Ma quale mito?”, protesta Flannery O’Connor, la scrittrice americana
della Georgia, con la sua amica di penna “A.” (le lettere sono raccolte in
“Sola a presidiare la fortezza”, l’angustia si propone alla p. 169 ). “Se sei
uno scrittore”, continua, “ed è il Sud che conosci, è di quello che scrivi,
giudicando a seconda di come giudichi te stesso. Forse è un bene e una
necessità allontanarsi fisicamente per un po’,
ma questo non significa assolutamente fuggire”. Non ce n’è bisogno, e
niente lo impone.
Non
senza giudizio: “Questo non vuol dire che quanto il Sud ti offre sia sufficiente,
o che abbia un’importanza altro che pratica: fornisce un contesto, un idioma e
così via”. Il resto, cioè tutto, però bisogna mettercelo. “Si potrebbe
discutere all’infinito dei vantaggi e degli svantaggi di essere uno scrittore del Sud, ma resta il
fatto che se lo sei, lo sei”.
Il
Sud come mondo a parte, ovunque.
È
anche vero, la stessa O’Connor ha già scritto ad altro corrispondente, che “la
gente del Sud non conosce minimamente la propria letteratura a meno di non aver
frequentato un’università del Nord”. E perciò vittima di cliché, malgrado la sua alterità.
Flannery O’Connor detesta Tennessee Williams e
Carson McCullers, due degli scrittori del Sud più in auge ai suoi anni, perché addebita
loro un Sud di maniera – “intellettuale”. Il suo è in effetti più reale,
ancorato: l’abbandono (triturazione) della tradizione, l’erosione a catena di
un mondo, che, comico e tragico, mite e violento, ne prepara uno più
debole, e un rapporto col Nord di reciproca estraneità, quando non è di
volonteroso asservimento.
leuzzi@antiit.eu
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