Un calcio nel sedere, non alla Sicilia,
ma al racconto della Sicilia, è il “Non c’è più la Sicilia di una volta”, di
Gaetano Savatteri. Un calcio che gli
stessi siciliani, questo Savatteri
omette, soprattutto si danno, compiaciuti.
Che cosa (non) sarebbe stata la Sicilia
senza l’Italia?
Si
scopre, perché le Ferrovie ci hanno impiantato un museo, che Pietrarsa, alle
porte di Napoli, è stata la prima fabbrica di treni del’Europa, e una delle più
attive fino all’unità d’Italia, e dopo. Il 3 ottobre 1839 si inaugurava la
Napoli-Portici, la prima ferrovia della penisola. A Pietrarsa, al km. 5,839
della ferrovia, dieci anni dopo si inaugurava un Reale opificio siderurgico e
pirotecnico. Che dopo dieci anni, poco più, con l’unità, chiudeva.
Qualche
ano dopo l’unificazione lo stabilimento di Pietrarsa fu riaperto come officina
di riparazioni. Per poco: era già il solito Sud che vuole qualcosa.
Media
mobilitati, riviste, inserti culturali, manifesti. Poi, dopo il flop, niente:
nemmeno una critica un’autocritica. Nemmeno uno sberleffo, silenzio: “Tempo di
libri” non s’è mai fatta a Milano.
Milano non ci ha sommersi per un anno con la sfida a Torino sulla fiera
dei libri.
Milano
è – era – “città chiusa”. Savinio l’ha conosciuta “chiusa”: “La città chiusa di
Milano io la ricordo ancora”, scrive nel 1944 in “Ascolto il tuo cuore, città”,
il suo omaggio alla città lombarda: “Era tra il 1907 e il 1910. Momento di stasi
assoluta del suo massimo splendore”. In cui non una virgola di poesia la
smuoveva.
Per
civiltà “chiusa” – “la sola forma di civiltà che m’interessi” – il tardigrado
Savinio intende una “civiltà molto matura e conchiusa in sé che non aspetta più
nulla dall’esterno”.
Passata
l’inchiesta Consip da Napoli a Roma si scopre che è avventata e artefatta. Si scopre senza difficoltà, il trucco era
evidente. Che cosa spinge Napoli a essere così vispa e spensierata?
Che
cosa spinge i giudici e gli ufficiali dei CC di Napoli a essere così
superficiali e aggressivi? Non i lazzari o i camorristi: la parte nobile della
città. Impunemente, è vero, ma questo basta?
Non
è la prima volta che giudici a Carabinieri napoletani montano scandali e
addomesticano prove. Successe nel 2006, per dire un caso celebre recente, con
la Juventus: intercettazioni selezionate e montate, indiscrezioni pilotate, e
poi un processo che la giudice cui toccava si rifiutò di giudicare, talmente la
imbarazzava.
Allora
la spensieratezza trovò l’interesse degli Agnelli di sbarazzarsi di manager che
temevano. Con la Consip ha trovato giudici e generali dei Carabinieri decisi a
difendersi. C’è un che di suicidario in questa beata incoscienza.
Il manicomio è
al Sud
Alda
Merini torna alla poesia dopo un’infelice esperienza matrimoniale al Sud, col
poeta tarantino Michele Pierri. Osteggiata dalla famiglia di lui. Al punto da
essere internata in manicomio. Da dove riesce a sfuggire e tornare a Milano.
È
la vulgata della poetessa milanese, falsa. E non si capisce perché. Complice,
seppure titubante, la stessa Merini. Che invece in quella esperienza, peratro
da lei fortemente voluta e quasi imposta, ritrovò equilibrio e creatività.
Merini
sposò Pierri a Taranto, in chiesa, il 6 ottobre 1984. Lui aveva 85 anni,
primario chirurgo e direttore sanitario in pensione dell’ospedale Ss .ma
Annunziata di Taranto, vedovo con dieci figli, lei 53. Un matrimonio da lei
assolutamente voluto, dopo quattro anni di corteggiamento, con molte pressanti
lettere e molte lunghe interurbane a carico del destinatario – di cui è
testimone, tra gli altri, Angelo Carrieri che ne ha scritto, il futuro
testimone in chiesa delle nozze. Vivendo ancora, agli inizi del rapporto con
Pierri, suo marito Ettore Carniti, benché già gravemente infermo, lei aveva
scritto una supplica al papa (un Giovanni Paolo II che s’immagina sbalordito)
per chiedere una speciale dispensa al secondo matrimonio.
Pierri
e Merini si erano conosciuti per il comune interesse alla poesia, che entrambi
praticavano. A un evento promosso nel 1981 a Milano da Giacinto Spagnoletti, un
tarantino da tempo attivo nella capitale lombarda. Pierri resistette a lungo
alle insistenze di Merini. Convincendosene alla fine come un espediente per ridare equilibrio mentale e forza
di volontà a una poetessa di cui aveva grande considerazione. L’equilibrio e la
voglia perduti nei quindici anni di internamento a Milano, al manicomio “Paolo
Pini”.
Pierri
non era nessuno. Era un medico napoletano. Nipote e allievo di Sabatino
Moscati, il medico poi beatificato. Si era trasferito a Taranto dopo la laurea
e la prima pratica per matrimonio - con
Aminta Baffi. All’ospedale di Taranto aveva esercitato come chirurgo, e poi
come primario. Era stato in carcere per antifascismo. Era poeta di ispirazione
religiosa, apprezzato da Pasolini (ne scrisse nel saggio in cui censiva anche
Ada Merini), Ungaretti, Caproni, Betocchi, Maria Corti.
Molto
in realtà Alda Merini deve agli otto anni di esperienza tarantina, quattro di
corteggiamento e quattro di matrimonio. Lo stesso rapporto poi proficuo con
Maria Corti fu avviato da quello con Pierri, che la Corti frequentava dagli
anni 1950, quando era docente all’università di Lecce. Fu a Taranto che nel marzo
1983, un anno e mezzo prima del matrimonio, Merini fu riedita, con la raccolta
“Le satire della Ripa”, pubblicata per iniziativa di Giulio De Mitri, un
artista tarantino amico di Pierri. Fu poi, rincuorata da questa pubblicazione,
che Merini avviò “Il diario di una diversa”, che sarà stampato nel 1986, con la
mediazione di Spagnoletti. Mentre curava la riedizione (di fatto un a riscrittura)
di “La terra santa”, l’opera che l’aveva segnalata giovanissima, pubblicata da
Scheiwiler. E scriveva “La gazza ladra”, “Vuoto d’amore”, componimenti vari che
confluiranno in altre raccolte, “Delirio amoroso” eccetera.
Merini
non fu mai ricoverata, da nessuno, in manicomio a Taranto, come ha raccontato,
o le hanno fatto raccontare. A Taranto non esisteva un manicomio, né nelle
vicinanze. Fu assistita una diecina di giorni a fine 1987 al reparto Neurologia
dell’ospedale di Pierri, per aiutarla nel trauma subito col tracollo fisico del
marito. Dagli stessi medici dai quali Pierri l’aveva fatta assistere subito
dopo il matrimonio, per ottenerne una sorta di ricostituente certificazione di
guarigione. Medici che conoscevano Alda, cioè, e l’apprezzavano. Nell’estate
del 1987 Pierri era stato operato per tumore. Dimesso dopo una lunga degenza,
era stato ricoverato e operato in fine d’anno una seconda volta – morirà
qualche settimana dopo, a gennaio del 1988. Alda, cosciente di non poter essere
di aiuto, e in difficoltà lei stessa per la prevedibile morte del marito, dopo
il consulto neurologico si era fatta accompagnare in aereo a Milano dai figli di
Pierri.
Lei
dirà di essere tornata a Milano perché “malata di nostalgia”. Ma anche,
alternativamente, “perché le grandi passioni uccidono”. È comunque a Milano che
subirà altri due anni di trattamento psichiatrico, dopo i quindici che vi ha
passato in manicomio, e non a Taranto.
Nessun
evento o testimonianza corrobora l’ostilità dei figli di Pierri. A parte le
ovvie perplessità e le resistenze al matrimonio tardivo, a 85 anni. Chi
frequentava casa Pierri assicura che Merini era trattata sempre con rispetto se
non con amorevolezza, malgrado le sue stravaganze. La propria figlia di Alda Merini,
Barbara, che era andata a trovarla, testimonia: “Sono rimasta una settimana e
sono stata trattata come una regina”.
Il
perché della storia falsata è l’antico vezzo di Milano, che Malaparte
stigmatizzava - “sempre quelli di su la scaricano sulle spalle di quelli del
piano di sotto”?
leuzzi@antiit.eu
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