lunedì 24 aprile 2017

Contro l’economia politica

La ricetta contro la povertà, ché di questo si tratta, è quella che oggi si propone per gli immigrati: “Ce li spartiamo: ecco, anche se non sono ricco, io ne prendo due in casa mia; qualcuno ne prendo io, qualcuno ne prendi tu, poi li portiamo a lavorare con noi così imparano un mestiere, dopodiché ci beviamo assieme una tazza di tè e loro ascoltano quello che abbiamo da insegnargli”. La propone a Tolstòj, all’avvio nei primi anni 1880 dell’esperienza riformistica e salvatrice, Vasilij K. Sjutaev, il suo mentore spirituale, contadino analfabeta. Molta buona volontà, molta filantropia anche da parte di Tostòj, che a differenza di Sjutaev è ricco, di terre e di diritti d’autore, e che altro?
Ma inizia con Tolstoj pure l’anticapitalismo viscerale, contro il denaro merce del demonio, che arriverà fino a Pound, una forma di stravaganza, al confine con la follia: “Qualunque impiego del denaro è una cambiale sulla povera gente”. È il meccanismo, argomenta il conte, inventato da Giuseppe nella Bibbia  – che avrà avuto dei precedenti, ma non li sappiamo: la speculazione sulla disgrazia (carestia). L’accumualzione originaria sulla carestia, e la moltiplicazione del profitto partendo da questa posizione di rendita.
Il “Che fare, dunque?” non è quello di Lenin, naturalmente, e nemmeno quello di Černyševskij, contro lo zar Alessandro II. È quello del Battista, il Precursore, e poi di Cristo, e prima di loro di Budda, Isaia, Lao Tse, Socrate. È un’analisi della povertà: come si costituisce nella prima parte, come andrebbe affrontata nella seconda. È il testo seminale della “conversione” di Tolstòj, del Tolstòj riformatore sociale e religioso. Lo scrittore, passando dalla campagna in città, ai cinquant’anni buoni, nel 1881, è sconvolto dalla “miseria urbana”. L’aveva vista in gioventù a Londra, quando viaggiava per acculturarsi, ma l’aveva rimossa. Una serie di tentativi per arginarla, finiti poi miseramente in un libro, questo, seguono: Tolstòj è determinato nella strada che intraprende, ma confuso, a dire poco, e irritabile, irascibile: è abituato, scrittore di romanzi, a vedere le cose con chiarezza.
La prima parte è la storia di un progetto caritatevole che sradica la miseria a Mosca, una volta per tutte, finanziato dai ricchi liberalmente, redatto in occasione del censimento cittadino del 1882, esposto nei salotti, sul giornale “Izvestia”, e in consiglio municipale. La miseria va rilevata col censimento. Tolstòj stesso se ne occupa in un quartiere povero. Dove il progetto evapora, di fronte ai casi della vita. Tolstòj si convince che la miseria è spirituale. Riprenderà il suo progetto in campagna, nel suo habitat abituale. Ma più sotto forma di analisi.
Un racconto di cose viste nella prima parte. Come quando, ricorda, a Parigi assistette alla decapitazione di un condannato a morte, episodio indelebile benché più volte narrato. Inurbandosi in tarda età, ricco e famoso, soprattutto grazie a “Guerra e pace” e “Anna Karenina”, Tolstòj è colpito dall’enorme numero di barboni che affollano le strade, e si raccolgono poi ai dormitori e le mense. E dai casi umani nei quali s’imbatte, che racconta. Una novità, ancora oggi, è che la convivenza era comune a Mosca già all’epoca: Tolstoj trova fino a “una quarantina di persone” in un appartamento  - e non è quello che lo scandalizza.
Uno studio assortito dell’elemosina e dei fattori di produzione, ben esposto, elabora nella seconda parte a tre anni dall’infebbramento moscovita. Tolstòj ha raggiunto quella che ritiene una certezza, dalle conseguenze radicali. Il problema è duplice, argomenta: è l’urbanizzazine che crea i rifiuti umani, è lo Stato che impone e perpetua la miseria. Approda cioè alla vecchia sostanziale riserva liberale: contro l’idolatria verso l’ “essere immaginario” che “per le scienze politiche è lo Stato” - la vecchia riserva anarchico-reazionaria: il liberalismo conseguente è l’anarchismo, ma allora su posizioni individualistiche, regressive, gli Stati sono mafie, etc. E contro lo Stato per “i suoi tre principali procedimenti di violenza”: la leva militare, e le imposte, fondiarie e sul reddito (dirette e indirette), necessarie per sostenerla. L’anarchismo è anche pacifista.
È un testo importante, per la lettura storica sempre astoricizzata, fuori dal contigente, vista nelle costanti. Come in sezione, da ingegnere o architetto. O da specialista dall’occhio clinico. Si dirà di Tolstòj che nella sua terza vita indulse al profetismo, ma non in questo “Che fare?”. In una mezza pagina sradica senza respiro tutto il consenso “occidentale”, contemporaneo, cristiano – uno squarcio su cui si può non concordare, ma non una “sezione” infondata della storia:
“Tutte le sottigliezze teologiche tese a dimostrare che la Chiesa è l’unica autentica erede di Cristo e, in quanto tale, la sola ad avere pieno e sconfinato potere non solo sulle anime, ma anche sui corpi delle persone, si prefiggono  proprio questo fine, comune anche alle scienze giuridiche – il diritto statale, penale, civile e internazionale – e alla maggior parte delle teorie filosofiche, soprattutto quella hegeliana, che ha così a lungo dominato con il suo principio dela razionalità dell’esistente e dello Stato quale forma necessaria della realizzazione della persona.
“La filosofia positivista di Comte e la dottrina che ne deriva, secondo la quale l’umanità è un’unità organica; la teoria di Darwin sulla lotta per la sopravvivenza e la conseguente differenza tra le razze umane; l’antropologia, la biologia e la sociologia tanto amate al giorno d’oggi, hanno quest’unico obiettivo, e sono scienze così benvolute perché giustificano il sottrarsi di alcuni individui alla necessità del lavoro fisico e il loro sfruttamento dell’opera altrui”.
I partiti politici, la stessa scuola sono discriminatori. Tutto confuisce “in un  unico mostruoso raggiro: un humbug, come dicono gli inglesi”. Senza differenze, senza mai novità: “Oggi occorre riferirsi al principio della nazionalità o a quello dello sviluppo organico, occorre ingraziarsi la nuova élite di scienziati e artisti, così come nel Medioevo bisognava ingraziarsi i religiosi, o alla fine del secolo scorso i filosofi (ne sono un esempio Federico e Caterina)” – Federico II di Prussia e la zarina Caterina di Russia.
Un’analisi di maniera, secondo i canoni dell’indignazione, ma appuntita. Partendo dall’economia politica, la “scienza al rovescio”: “Fine della scienza dovrebbe essere indagare la connessione tra i fenomeni e la causa comune di tutta una serie di essi. L’economia politica fa invece esattamente il contrario: nasconde la relazione esistente tra i fenomeni e il loro significato ed evita di fornire le risposte alle domande più semplici ed essenziali”: il diritto di proprietà?  il denaro? le politiche fiscali e monetarie? le politiche economiche.? Contro le teorie: contro Hegel, contro Malthus, contro Comte e Spencer, contro Smith e Ricardo non nominati, contro la Chiesa, contro la teoria della divisione del lavoro – singolare l’assenza dal dibattito allora, anni 1880-1890, di Marx, in qualsiasi forma.
La parte più interessante è quella finale e personale, molto tolstojana, della scoperta del lavoro manuale, fattuale, realizzativo, accanto a quello intellettuale, della lettura, lo studio, lo scambio. Che determina “la qualità, quindi l’utilità e l’allegria, della scrittura”. Il disegno sociale invece non esce dallo sdegno, dalla filantropia. L’attualizzazione è meramente di facciata, un omaggio a Tolstòj, il libro è vecchio. Ma forse anche l’attualità è vecchia: queste centinaia di migliaia di africani che si amassano sulle coste mediterraneee, pronti a morire a mare alla prima onda d’urto, per finire se tutto va bene sui marciapiedi europei a raccattare elemosine, sanno molto della “schiavitù” e del “disordine spirituale” che un’errata concezione della ricchezza genera e il conte s’industriava a debellare.
Lev Nikolaevič Tolstoj, Che fare?, Fazi, pp. 245 € 20

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