Il
”Corriere della sera” lo celebra in prima e in un profluvio di pagine interne, con necrologio di tuta la redazione nominativa, da Agnoli a Ziccardi, ma quanta fatica per farvelo penetrare. Gli stessi primi approcci, sul “Mondo”,
un periodico già a circolazione ristretta, dove non “offendeva” nessuno, furono
faticosi, limitati a una “vetrina”, un “naso”, una dichiarazione, di uno di
tanti esperti.
Il
professore rispose volentieri da New York ai primi approcci. Si faceva trovare,
e se non c’era rispondeva ai messaggi. Ambiva a dire la sua anche in Italia, e
non soltanto sulla “Nazione”, che considerava giustamente un giornale
provinciale – lui stesso aveva da tempo lasciato Firenze, e da New York, quando
non sarà più tenuto al bando dal “Corriere della sera” e dalla Rai, rientrerà a
Roma. Era anche il momento suo, della sua specialità, attorno al 1990, quando l’Italia
voleva cambiare regime politico e elettorale. Ma dovrà aspettare, che la caduta
del Muro travolga infine il Pci: le redazioni della Rizzoli Corriere della sera
erano presidiate dalla cellula del partito, giornalisti furbi ma occhiutissimi,
anche sulle virgole, e inflessibili. Sartori non solo non vi aveva spazio, ma “non
esisteva”.
E
questa è la storia: Sartori entra al “Corriere della sera” a settant’anni suonati,
già emerito. Per la porta di servizio. E non per chiara fama: per riequilibrare un po’ la caduta del Muro.
Il liberalismo del giornale lombardo si fermava al bobbiano (ipocrita) “pluralismo”,
un colpo al cerchio e uno alla botte. Sartori era invece di idee cristalline.
È
stato ai trent’anni uno dei giovani chiamati nell’allora facoltà unica di
Scienze politiche in Italia, l’istituto “Cesare Alfieri” di Firenze, dal preside
Maranini all’insegna del liberalismo di stampo anglosassone. Con Ferrarotti, Spreafico,
D’Amoja, Predieri, Tosi. E già insegnava “Democrazia e definizioni”, nella
pedagogia facendo largo spazio alla metodologia – fino a far precedere il corso
da 150 pagine di manuale meta-metodologico: di che cosa andiamo a parlare. Le
lezioni terminando con uno spazio per chiarimenti e contestazioni. Non ebbe più
spazio nell’Italia degli anni 1970, del compromesso storico, che obliterò la
cultura laica che Sartori rappresentava. E se ne andò in America, alla Stanford
e poi alla Columbia.
Una
coda si può aggiungere. Sartori fu recuperato, ma come una maschera da talk-show,
una delle tante, e per disquisire di sistemi elettorali. Il suo impianto
culturale (obiettivi, istituzioni, procedure, la prassi del buongoverno) rimane
tuttora affossato sotto la censura compromissoria di cui l’Italia ha fatto una seconda natura.
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