Un
rifacimento del “Federico il Grande “ di Carlyle: il gran re nel dubbio, solo,
minacciato dalla sconfitta, tentato dal suicidio. Due incursioni nella storia
del sé, in limiti storiograficamente compatibili, dei momenti precedenti l’evento
come poi si è registrato. Di cui però il lettore sa già che si è risolto
positivamente.
Un
invito alla fiducia, alla dichiarazione di Guerra del 1914 – “Un saggio adatto
al giorno e all’ora” era il sottotitolo della breve opera. Che sorprese amici e
parenti perché Thomas Mann non era un nazionalista. Con questo “Federico” lo
diventa. La somiglianza tra le due situazioni non c’è, tra il tentativo di fare
della Prussia la forza nazionale e la guerra del 1914, ma lo scrittore se la
inventa, vuole dare un messaggio ottimista. In due direzioni. Malgrado dubbi e
debolezze, vinceremo. La cultura tedesca si fa forza della forza, della durezza.
O
forse no, la somiglianza c’è: l’imperialismo del 1914-18 è un prolungamento del
percorso nazionale di tipo prussiano. O: la democrazia è insidiosa, la Germania
deve difendersi.
Nella
prefazione alla riedizione da lui consentita nel dopoguerra, Thomas Mann lo
dice. Si scusa del “mio stato d’animo nazional-conservatore e militarista dell’epoca”,
ma sempre schiettamente antidemocratico. “La democrazia si è dimostrata sempre
così connivente con il fascismo” è la prima frase, “e lo è ancora oggi”, “che
le sue colpe offuscano un po’ la vergogna con la quale ricordo la mia stoltezza
politica e l’incomprensione polemica che dimostrai nei confronti della
democrazia”. Questo scriveva nel 1953, in Svizzera, già dimentico dell’America
che l’aveva ospitato fino alla fine della guerra.
Questo
lato di Thomas Mann, accentuato tre anni dopo nelle “Considerazioni di un
impolitico”, è sottovalutato. Ma non è marginale nella “filosofia” del narratore,
nel modo come l’auore vede le sue storie. Ed è centrale nella storia della
Germania anche contempornea, nel suo modo di essere e pensarsi.
Thomas
Mann, Federico e la grande coalizione,
Treves, pp. 91 € 16
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