Un repertorio,
l’unico ancora esistente, di una letteratura vivacissima. Rimosso perché la chiesa,
che ne è depositaria, e più sarebbe interessata a valorizzarlo, è ancora infognata
nel moralismo sessuale, delle mutande e
delle tendine alle finestre. Il miglior sequenziario della raccolta ha un
monaco Godeschalk, un monaco dell’anno Mille,
pieno di tenerezza per la Maddalena. “Tu l’ami”, dice Godeschalk al Figlio
della Vergine che non sdegna le carezze della peccatrice, “affinché essa sia
bella”.
I sequenziari, che Tommaso da Kempis sublimerà, erano peptalk di
sacrestia, di chi, ragazzi e monaci, non ricordava le parole ma ne traeva
coraggio.
È un repertorio odiernamente a volte scabroso. “Oh virga ac diadema\purpure Regis”, invoca la santa Ildegarda per
la Madonna, o verga e corona\ purpurea del Re. L’Hortus Deliciarum della
badessa Herrade si bea di vermi, rospi e serpenti. In una vita perennemente
pubblica, cui gli stessi imperatori e i vescovi erano soggetti, penitenze
incluse per ogni sorta di reato, che così si dichiarava, comprese la pedicazione
e l’irrumatio.
La troppa bellezza allarga il campo fino a
renderlo inafferrabile. Roba da “Pange, lingua, gloriosi corporis mysterium”,
piangere il mistero del corpo glorioso, se non fosse sacrilegio. O cantarne le
lodi con Ulrich Stöcklins di Rottach: “Castitatis in tenorem\ Plasma gignit
plasmatorem”, nella castità la forma genera il suo formatore, “haec
est virgo non irrigata, sed Dei gratia florigera”, la vergine non
irrigata fiorisce per grazia di Dio - secondo i monaci anche Dio desidera la
Madonna. L’erotismo è già dell’avvocato bordolese Ausonio, IV secolo, il quale, poeta neoterico maestro di
san Paolino di Nola – che è di Bordeaux – e a Treviri di Graziano, il figlio
dell’imperatore Valentiniano I, scrisse il verso del mistero cartesiano, “sic et non”, sì e no, carmi nuziali in
cui dettaglia come fare la festa alla sposa, cantici alla schiava germanica
Bissula, e un poemetto perfino commosso, “Mosella”, dopo un viaggio da Bingen a
Treviri – in onore del vino, più robusto che sul Reno o in Franconia.
È
un repertorio di poesia transalpina. Senza frontiere, che si traversano ignari:
prima degli Stati la vite univa Francia e Germania. L’Europa che non trova
radici ne avrebbe due consolidate, per mentalità e linguaggi, l’area del vino e
quella della birra. La vite ha prevalso, il vino che accende
la lettura: “lasciva
est nobis pagina, vita proba”, canta Ausonio, il poeta bordolese della
Mosella. La Mosella è la Germania più romanizzata - col Sud Tirolo ora
italiano: ci facevano il vino. Si fa poesia col vino, si filosofa con la birra?
Vandelberto, abate di Prün, sempre area del vino, versificò il calendario, come
Francis Jammes.
Ma è ben tedesca, non si può non dirla
tale, la tradizione più fertile, poi soffocata da Lutero e l’antilatinità. La Liebfrauenkirche reca sempre la quartina: “Quum divus Marcus
Paschabit\et Antonius pentecostabit\et Iohannis Corpus dabit\totus mundus
lacrimabit”. Quando la Pasqua viene per san Marco, che
in Italia è la Liberazione, la Pentecoste porta a sant’Antonio, il Corpus
Domini a san Giovanni, e al mondo tutto lacrime. Il Medio Evo tedesco è ben di
tutti – ed è da primato, quello sì: Alberto Magno e Hildegarda, le cattedrali e
i mistici, Adamo di Brema, Ugo di san Vittore, Wolfram di Eschenbach, Cesario
di Heisterbach. Cesario scoprì il demone dei refusi, Tivillo. A Zell si coltivava il
lattucario, che ha l’effetto dell’oppio. Valfredo
Strabone, abate di Fulda, in anni calamitosi si diletta all’elogio della
cucurbita scrivendone a Grimaldo, abate di San Gallo. Il gallico Orienzio,
vescovo della guascona Auch, consola: “La
nostra fine non ammette fine, la morte, che ci fa morire, muore perennemente.
Per l’eterno moto l’uomo vivrà in perpetuo”. Il
tutto mescolato con un Borgognone septipes, da Gourmot scovato nel
repertorio di Sidonio Apollinare, che il Calonghi legge alto sette piedi, cioè
smisurato. E altre meraviglie.
La
sorpresa maggiore è lo stesso Gourmont. Qui erudito, ma a Parigi nel Fine
Secolo protagonista della scena letteraria, con i simbolisti Huysmans e
Mallarmé, fondatore di riviste (con Jarry, con Gide) e case editrici (Mercure
de France), confidente, consulente letterario e patrono di molte disinibite autrici,
come Rachilde, e altre del moderno Lgbt. A Natalie Clifford Barney, amore
tardivo impudico, scrisse rinomate “Lettere all’Amazzone”. E si volle autore di
una “Fisica dell’amore”, malgrado un lupus
deformante lo imbruttisse e lo tenesse al chiuso. Aveva sposato Berthe de
Courrière, famosa modella, legataria dello scultore Clésinger, che lo accudì generosa
fino alla morte, ispiratrice di “Sixtine”, il romanzo più famoso di Gourmont,
destinataria di roventi “Lettere a Sixstine” pubblicate postume.
La
riedizione è stata curata dal poeta torinese Roberto Rossi Testa - una delle
sue ultime cose. Che la fa seguire da un capitolo di “A ritroso” di Huysmans,
nel quale è questione di libri latini della decadenza. Ma Huysmans, il vecchio
amico di Gourmont che fece professione di “decadentismo”, è fuori linea – Gourmont
recluso non ne parlerà più bene all’abate Mugnier, il dagospia del primo
Novecento.
È
il latino di chiesa – di questo si tratta – minato dalla decadenza politica? Gourmont
non lo pesa, né lo mette in classifica. Ma ci trova molta ottima storia. Per
esempio dietro il “Dies irae” di Tommaso da Celano. E dietro lo “Stabat mater”
di Jacopone. Un contributo notevolissimo dando anche alla storia letteraria cisalpina,
italiana, nella lunga tradizione che traccia di cui lo sbocco è appunto in
Jacopone, e nel frate minore che scrisse le vite di san Francesco e di santa
Chiara. Del “Dies irae”, il giorno del terrore di fronte alla morte, trova il
motivo nel libro biblico del profeta Sofonia – quello dei “contro”: i Giudei
idolatri, i Filistei, Moab e Ammon, l’Etiopia e l’Assiria, e Gerusalemme.
Rémy
de Gourmont, Latino mistico, Aragno,
pp. XV + 348 € 18
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