Non
si ha più memoria di Enrico Leo, geografo e politologo (“Studi e abbozzi per
servire alla fisica dello Stato”), lo ignora pure wikipedia ed è tutto dire. Era
peraltro già per Carlo Cattaneo un “ingegnoso istorico”. Si sa che fu un discepolo di Herder e di Karl Ritter, il
geografo considerato all’origine, con Alexander von Humboldt, della moderna
geografia. E nulla più. Ma
si deve a lui tutto il dibattito meridionalista
e antimeridionalista in Italia, alla sua “Storia degli Stati Italiani dalla
caduta dell’Impero Romano fino all’anno 1840”, pubblicata a Firenze nel 1842. L’Italia
è divisa in due, argomentava Leo, perché è due distinte Italie geograficamente.
A Nord dell’Appennino ha pianure, collegamenti facili, corsi d’acqua utili al’irrigazione
e ai trasporti, mercati naturalmente aperti. A Sud è frastagliata e chiusa dai
monti, in valli strette, tra corsi d’acqua ribelli: una natura (geografia) che
fa insocievoli anche le popolazioni.
Guido
Morselli, che si dilettava dei dialetti, e ne fa largo uso nei romanzi, fa
chiamare Francesco Mélito duca di Portosalvo familiarmente, dal suo amico il re
Umberto I, “don Cicce” – “non lo dovete chiamare eccellenza, no, don Cicce”, il
re raccomanda ai commensali del “Divertimento 1889”. Errore grave, tanto più
per una pronuncia calabrese, che Morselli si piccava di conoscere meglio essendo
stato militare di leva su è giù per la regione: in nessun dialetto calabrese si
sfumano le terminazioni, la-le sillaba-e finale-i. Questo è uso napoletano, di
parlare cantando. Più che sillabe emettendo suoni, distinti ma inarticolati.
Il
napoletano semmai risolve il problema dei cantanti d’opera, di limitare la
sillabazione ai suoni.
Il
radicamento non è un limite
“Paesaggio creativo” Heidegger trova
quello di casa, nel messaggio alla radio di Berlino nel 1933, per spiegare il
rifiuto della cattedra nella capitale - “Paesaggio creativo: perché restiamo in
provincia?” Il filosofo era uno svevo alemanno, e voleva restare in Svevia.
Voleva anzi restare nell’ambiente chiuso
nel quale solitamente si recava per “lavorare”, la sua baita di montagna. Un
luogo che si direbbe inospitale, “di sei metri per sette”, diviso in “tre
locali: una cucina abitabile, la camera da letto e uno studiolo”. Tra “la
gravità dei monti e la durezza delle loro rocce primitive”. Ma anche tra “il
fasto luminoso e schietto dei prati in fiore, lo scrosciare del ruscello
montano nella vasta notte autunnale, la
semplicità austera delle distese innevate”. Più a suo agio nella riflessione
“quando, nel profondo della notte invernale,una violenta tempesta di neve
abbatte i suoi colpi sulla baita”. Isolato ma non solitario. Anche se più
spesso in compagnia del silenzio. “Il cittadino crede di «calarsi nel volgo»
quando si concede una conversazione con uno di campagna”. Non è così: “Quando
alla sera, al tempo della pausa dal lavoro, siedo con i contadini sulla panca
della stufa o al tavolo sotto il Crocifisso, per lo più non parliamo affatto. Fumiamo in silenzio le nostre pipe. Capita che venga detta una parola…”.
Una realtà vissuta più che cercata, o costruita,
che si esprime attraverso il dialetto. Con accorgimenti: il dialetto è
significativo se mediato. Heidegger molto ne ha trattato, per le abitudini
montanare e per la riflessione critica persistente sul poeta e narratore
alemanno Peter Johann Hebel, studi di cui questo sito ha dato conto,
ci torna su in “La lingua di Peter
Johann Hebel. “In che cosa consiste il segreto della lingua di Hebel? Non in
una volontà stilistica artificiosa, e nemmeno nell’intenzione di scrivere nel
modo più folkloristico possibile”. Il segreto è l’innesto del dialetto alemanno
“nella lingua scritta”: la capacità “di far sì che questa – la lingua scritta –
risuonasse come pura eco di quello, del dialetto. E in “Linguaggio e terra
natia”,
“Nel dialetto è radicata l’essenza del
linguaggio”. È il “proprio” luogo, la “patria”: “In esso si radica pure, se la parlata
è la lingua della madre, l’intimità del sentirsi a casa propria, la terra
patria. La parlata non è solo la lingua della madre, ma al contempo e anzitutto
la madre del linguaggio”.
Una reductio,
una concentrazioni di forze e umori, che non è però esclusione o isolamento, ma
la strada per partecipare, da compagni di strada e non da clientes, con un proprio bagaglio.
Non
c’è posto per Vallone
Si celebra di tutto ma non una parola
per i cento anni qualche mese fa della nascita di Raf Vallone, che pure è stato
protagonista eminente dello spettacolo. Nonché figura per ogni spetto
stimabile,un simbolo e un esempio in altra cultura, di qualche dignità cioè,
non afflitta dall’effimero e il coatto. È stato protagonista di film che fanno
la storia del cinema. E di teatro con altrettanta caratura. Il primo e
privilegiato interprete di Arthur Miller, “Uno sguardo dal ponte”, dapprima a
Parigi nel 1958, regista Peter Brook, poi al cinema nel 1962 con Sidney Lumet,
e in Italia nel 1967. Dopo aver portato in scena a Torino il “Woyzeck” di
George Büchner.
Al cinema esordì nel 1942 con una parte
di rilievo in un parterre altisonante, nel film “Noi vivi”: romanzo di Ayn
Rand, sceneggiatori Corrado Alvaro, Anton Giulio Majano, Orio Vergani, musiche
di Renzo Rossellini, regia di Goffredo Alessandrini, coprotagonista Alida
Valli. Sarà uno degli interpreti del neo realismo, di De Santis, “Riso amaro”, con
Silvana Mangano, e “Non c’è pace tra gli ulivi”, di Germi, “Il camino della
speranza”. Nonché poi di film di ogni genere, Camerini, Malaparte, “Cristo
proibito”, ancora De Santis, “Roma ore 11”, e Alessandrini, “Camicie rosse” (è
Garibaldi). Nonché in Francia, con Simone Signoret in “Teresa Raquin” di Marcel
Carné. Parteciperà anche a numerose produzioni di spicco, in Italia, “La ciociara”, “Un voglia da morire”, e fuori,
“Retour à Marseille”, “Lion of the Desert”, “A time to die”, “Il Padrino- parte
III”.
Una persona semplice malgrado i successi
fino alla fine. Senza pettegolezzi, malgrado un flirt con Brigitte Bardot.
Solido, asciutto. Calciatore del Torino da ragazzo (titolo italiano Ragazzi
1930-31, quando aveva quindici anni), e poi in prima squadra, con 25 presenze e
quattro gol dal 1936 al 1941 (più sette presenze in prestito al Novara nel
1939-940), Mezzala, evidentemente di non grandi risorse. Ma contemporaneamente
si laureava, due volte: in filosofia e in legge, passando esami con Luigi Einaudi
e Leone Ginzburg tra i tanti. Conclusa con gli studi l’esperienza calcistica
parallela, fu giornalista. Critico di cinema alla “Stampa”. E dopo la
resistenza attiva, partigiano combattente durante l’occupazione, redattore capo
della cultura all’“Unità” di Torino. Posto in cui fu succeduto, quando lasciò per fare il cinema, da Italo Calvino.
Fu capo redattore all’ “Unità” ma
rifiutando l’iscrizione al Pci, che del giornale era l’editore - “l’Unità” era l’organo dl partito
Comunista. Non ne apprezzava, eresia all’epoca, lo stalinismo. Ma non è per
questo che è dimenticato – il Pci e i suoi esecutori possono essere compatti e
feroci nelle censure. La sua colpa è essere stato calabrese. In qualche modo.
Nato a Tropea, torinese di fatto, poiché
a Torino, dove i suoi si erano presto trasferiti, aveva fatto le scuole e ogni
esperienza di vita, senza mai più tornare in Calabria, tuttavia era censito, e
si censiva, come calabrese. All’epoca era virtuoso rivendicare le origini,
quali che fossero, non si facevano pesi e misure. Ma per lo stesso motivo un
personaggio così era destinato all’oblio, nell’Italia leghista. E in una
Calabria che rifiuta se stessa.
Perfino Tropea, cui Vallone diede lustro
e che molto contribuì a lanciare come stazione turistica marina, se lo è
dimenticato. Se non per l’iniziativa delle figlie Eleonora e Arabella (una
breve intervista con Peter Brook), e del figlio Saverio (foto di scena, per una mostra che avrebbe dovuto essere, ma non è, permanente).
leuzzi@antiit.eu
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