Il mondo arabo si
trova on the brink, sull’orlo del
precipizio, per almeno due aspetti. Il primo sono le fratellanze mussulmane,
variamente radicali ma tutte sovversive delle due tipologie di regimi che lo governano,
il bonapartismo (Nord Africa e Medio Oriente propriamente detto) e il
tribalismo. Il secondo è la riduzione della rendita petrolifera, in termini
reali e perfino nominali. La riduzione è certa a lungo termine per ragioni fisiche,
tecnologiche e di protezione dell’ambiente, ma probabile già nel medio termine,
e in atto da un paio d’anni per ragioni di mercato. La rendita però impegna,
come risorse e come investimenti, più della metà del “fatturato” della regione.
È su queste
ipotesi che lavorano i maggiori centri
finanziari e bancari mondiali. La rendita si assottiglia a fronte delle spese,
d’investimento e militari. E in assoluto, in termini di introiti, malgrado
l’entrata sul mercato dei grandi consumatori asiatici, Cina e India, che hanno
irrobustito una domanda calante. Il calo è marcato benché il prezzo del greggio
sia tenuto artificialmente alto per consentire lo sfruttamento in Nord America
(Usa e Canada) degli scisti bituminosi.
Il consumo mondiale
di petrolio è fermo da tempo, per le politiche di riduzione dei consumi e dell’uso di fonti di energia non fossili. Per gli stessi motivi l’attuale equilibrio, di prezzi-quantità, già
precario per i paesi produttori, è destinato a peggiorare
L’insufficienza della
rendita si fa sentire sui bilanci per ora soltanto dell’Arabia Saudita. Ma
inciderà anche su quelli di Qatar, Bahrein ed Emirati (Abu Dhabi, Dubai),
malgrado le diversificazioni importanti già attuate dai regnanti. E comunque
nessuna realtà della regione, l’Egitto compreso, passerebbe indenne a un crac
saudita.
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