Lavoro autonomo – Resiste solo in Italia. “La Lettura” costruisce un
atlante del lavoro che dà all’Italia il record del lavoro autonomo, nel quadro
complessivo della forza lavoro. Il persistente rilievo dell’artigianato si
desume indirettamente, dalla minore percentuale del lavoro dipendente
nell’insieme della forza lavoro: il 57,2 per cento. Mentre nell’insieme delle
economie sviluppate la percentuale dei lavoro dipendente è molto superiore -
attorno al 75 per cento in Germania, Olanda, Danimarca, Giappone, Svezia, Gran
Bretagna.
Solo la Grecia ha una
percentuale di lavoro autonomo maggiore dell’Italia (il lavoro dipendente vi è
poco più della metà della forza lavoro complessiva), probabilmente per
l’incidenza del turismo e del piccolo commercio sul pil. Ma l’economia italiana
è più diversificata, è una delle più ricche del pianeta, e a ha l’industria
manifatturiera più grande d’Europa dopo la Germania (due grandezze non
comparabili, la popolazione, e quindi la forza lavoro, essendo in Germania di
un terzo superiore).
L’economia italiana è ancora in
linea con la sezione che se ne fece settant’anni fa agli albori della
Repubblica, ai lavori della Costituente, dove si volle salvaguardare
l’artigianato o lavoro autonomo come una specificità italiana – a opera di
Amintore Fanfani, che andò alla Costituente come economista.
La diffusione del lavoro
autonomo in Italia è legata anche alla persistenza del piccolo commercio,
altrove rapidamente fagocitato dalla grande distribuzione.
L’atlante è costruito sui dati dell’Organizzazione
per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che raggruppa i i”vecchi” paesi
più industrializzati dell’Occidente. L’Ocse non tiene conto degli effetti della
globalizzazione, che ha cambiato gli equilibri della distribuzione mondiale
della ricchezza - dalla Cina e la Thailandia al Perù, al Cile, al Brasile.
Opinione pubblica – È fatta più che farsi. Per i motivi più vari,
anche la stupidità, ma è sempre manipolata-agita. Per anni e tuttora in
Germania l’opinione è stata largamente antigreca. Perché il governo e i
giornali l’hanno portata a credere il falso. È anche facile nei movimenti un
animistici, e l’opinione pubblica ne è uno: tutti si curvano dove spira il
vento, anche leggero.
Molti tedeschi -
non tutti ma la maggior parte - sarebbero sorpresi di scoprirsi anti-greci,
loro che amano la Grecia, che per loro ha creato quando erano proibite le isole
gay, nudiste, del fumo libero eccetera,
insomma di arbitrio totale. Come molti furono sorpresi quando, dopo la
sconfitta, si scoprirono nazisti: loro non volevano.
Lo stesso, a un
gradino di poco inferiore di virulenza, in Germania contro l’Italia e l’Europa
in genere – compresa la Francia, che il galateo tedesco vuole assolutamente
amica e sorella, come gli ebrei e ogni altro vecchio nemico. La Germania ogni
giorno è portata a interrogarsi: “Quanto ci costerà?”, la Francia, l’Italia, la
Grecia.
Lo stesso su
internet: un tweet riuscito, con milioni di fan, ed è fatta.
Su internet però l’opinione è
più democratica. La rete, la tela comunicativa, non è di massa o
d’insieme: la piazza, il mercato, il
bar, il talk-show - con gli applausi a regia, le inquadrature buone e cattive,
i tempi, prolungati, tagliati, asfittici, la modulazione delle sonorità, mille
artifici. La rete è individuale, e implica una riflessione, per quanto minima.
È di accesso libero a tutti. E garantisce, a differenza dei media, una variata
verità documentale, qualora uno volesse accedervi.
La reazione, però,
su internet è superficiale più che documentata o argomentata. Questo può non
essere un limite: internet dà spazio anche alla verità emotiva - sentimentale,
viscerale, d’intuito. Ma lo è, per la mancanza o l’evanescenza del dialogo, del
contraddittorio.
Commentando una bomba rudimentale
scagliata contro l’arcivescovado a Milano l’8 gennaio 1956, un atto simbolico,
anarcoide, Leo Longanesi si irrita per l’eco che ha nei giornali: “Una bomba al
tritolo reca meno danno di una trasmissione televisiva, di un provvedimento di
legge, di un titolo su cinque colonne”. Un’esagerazione non ingenua: “I
quotidiani vi dedicano vasti titoli apocalittici, di involontaria comicità, in
cui al modesto scoppio sono associate parole di un calibro eccessivo, che
lasciano trasparire l’acuto rimpianto di un vero terrorista, di un vero re del
tritolo”. Un’anticipazione di quella che sarà la saga del terrorismo, non molti
anni dopo.
Ha alti e bassi. Anche molto: è
l’opinione che condannò Socrate, per esempio.
Razzismo – È un proiezione. È stato biologico, ma senza
fondamento. È stato economico, finché alimentava lo schiavismo, e poi
culturale. Ma si alimenta unicamente del pregiudizio, e in forme tortuose,
contraddittorie. I giapponesi, a lungo
considerati inferiori negli Stati Uniti, che a un certo punto ne proibirono
anche l’immigrazione, sono impermeabili e anche razzisti nei confronti di
qualsiasi estraneo, tutti gli asiatici compresi. Il razzismo è stato forte ed è
durevole negli Stati Uniti, dove i non bianchi non sono mai stati maggioranza –
neppure negli stati del Sud, dove erano e sono più numerosi. E si è esercitato,
per l’ipodiscendenza, su tutte le misure di commistione, di meticci che abbiano
anche solo un ventiquattresimo di razza non bianca. Nei confronti degli afroamericani
ex schiavi come degli asiatici. In Brasile, all’opposto, dove afroamericani e
indios sono sempre stati maggioranza, il colore non è stato dirimente, se non
collegato alla povertà e alla marginalità sociale. La minoranza portoghese aveva
bisogno di allargarsi per mantenere le sue posizioni, e questo portò all’accettazione
di tutte le misure di meticciato. Nel creolismo, notevole affrancamento dalla
minorità razziale - Obama sarebbe stato considerato bianco in Brasile. E anche
istituzionalmente. Quando infine nel 1888 abolì la schiavitù, il Brasile lanciò il branqueamento, lo sbiancamento della popolazione,
adottando vasti piani d’immigrazione, prima dal Nord Europa, poi pure dal
Mediterraneo – ci sono così in Brasile più
lombardi che siciliani.
L’incrocio
razziale è tuttora ritenuto dalla scienza nazionale brasiliana causa di follia, criminalità e malattie, ma il Brasile è forse il paese più meticcio al mondo. Con il culto
anzi della differenza razziale – che la pubblicità delle prostituzione
curiosamente alimenta, distinguendo l’offerta in base al colore: branca, bianca, amarela, che non è bionda ma
asiatica, parda, bruna di pelle, il colore si riferisce alla pelle, e preta,
nera
(anche indigena, che non è più il
colore, ma la razza). Si capisce
al tropico che il bianco puzzi di morto per i neri, tanto è pallido. Il branqueamento
si può dire in quest’ottica una
scelta eroica, essendo il Brasile eminentemente tropicale. Il
progressista marchese di Pombal, che perseguitò i gesuiti, che
proteggevano i Guaranì e le altre popolazioni indigene, impose agli angolani l’emigrazione in Brasile. Ne nacquero il
samba e tanti brasiliani. Il marchese, riponendo la prosperità nella
demografia, fece del Brasile un fottisterio. “L’estrema voluttà dei portoghesi
li portava a integrarsi senza difficoltà ai tropici”, così Freyre spiega il
lusotropicalismo, prima della squalifica del negro, e delle negre.
“È il colore della virtù bianco?”,
già il negro del “Flauto magico” dubita. Il razzismo è nato poco prima.
Il razzismo nasce col neo
schiavismo, quello che si impianta in Africa per colonizzare l’America. Nasce
nel Cinquecento. Ma già un secolo prima in Spagna si era creato il problema dei
mori e degli ebrei convertiti: anche se convertiti a forza, mantennero lo
stigma del nemico, che era già dei mori e degli ebrei. L’esito di un paradosso:
mori ed ebrei erano rispettati in quanto tali finché restarono distinti e
separati. La religione è del resto sempre stata un fattore attivo del razzismo:
nei pogronm anti-ebraici, fino alla Shoah, nell’eccidio degli armeni in Turchia,
nelle innumerevoli liquidazioni di minoranze “settarie”, compresi ora i
cristiani in ambito mussulmano.
Ma la vera squalifica del negro viene nel Settecento,
con l’abbandono dell’unità cristiana di anima e corpo, Voegelin lo spiega dal
‘33 in “Rassenidee”, e della creazione. In favore della materia immanente,
partendo dal botanico John Ray e dal concetto di organismo, fino alla storia
della terra di von Humboldt. Il razzismo moderno, biologico, è effetto della secolarizzazione, e Darwin lo
sanzionerà, ogni qualità, dello spirito, del corpo, della storia, fondando
sulla natura, checché essa voglia dire, e sui suoi processi, unificati nella
cosiddetta selettività.
Via della Seta – È il nuovo progetto di politica estera cinese. Un
disegno globale, anche se lascia fuori solo gli equilibri multipolari, con gli
Stati Uniti, il Giappone e l’Europa. La ridefinizione cinese del progetto russo
di Eurasia è militare e politica, oltre che economica, e allarga la proiezione
cinese ben al di fuori del vecchio asse, della Via della Seta di Marco Polo a
cui si intitola. Si estende infatti al subcontinente indiano, in funzione
anti-India. E all’Africa. Non escludendo proiezioni in America Latina, per il
commercio e per gli investimenti.
Commercio e investimenti sono
sviluppi in atto da tempo in Africa. Dagli anni 1970 si può dire, quando ancora
le Guardie Rosse imperversavano a Pechino, ben prima di Deng e le “quattro modernizzazioni”
. Allora Pechino forniva manodopera qualificata a buona mercato per le opere
civili, infrastrutture, comunicazioni. Ora prospetta delocalizzazioni.
Delocalizzazioni prospetta
anche nel Sud-Est asiatico. Con attenzione però agli aspetti militari e
della difesa. Prospettandosi come difesa dalla potenza indiana. Al Nord come al
Sud dell’India, in Nepal e nello Sri Lanka.
astolfo@antiit.eu
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