“Fuggit’è
ogni virtù, spent’è il valore,\ Che fece
Italia già donna del mondo”. C’era l’Italia dunque, nel Trecento, aveva
trionfato e stava deperendo. Gli storici del periodo , da Burckhardt e
Braudel Le Goff, fanno italiani anche i
due secoli seguenti, fino alla Riforma e oltre. Ma lo stigma va forse col nome:
Italia = decadenza.
Non
è l’unico interesse della raccolta, benché di maniera. Sono rime d’amore. Un viluppo
di passioni che Boccaccio riassumerà nel proemio del “Decamerone”: “Il mio
amore, oltre ad ogni altro fervente, e il quale niuna forza di proponimento o
di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva
potuto né rompere né piegare, per sé medesimo in processo di tempo si diminuì”,
lasciandone traccia nel ricordo, che è più spesso, “dove faticoso esser solea,
ogni affanno togliendo via, dilettevole”. Boccaccio non era giocondo, ma gli
piaceva sembrarlo.
È
Boccaccio prima del “Decamerone”, poeta prolisso, ma non privo di zampate. Anzi
le rime variamente indirizza a obiettivi femminili, in carne e ossa. Tra accensioni costanti, e le delusioni inevitabili
– che poi confluiranno, tutti gli amori riuniti, nel “Corbaccio” contro le donne.
Si comincia anche qui in ambiente agreste, in idillio: “Intorn’ad una fonte, in
un pratello\ Di verdi erbette pieno e di
bei fiori\ Sedean tre angiolette…”. È il trademark. Con un po’ di Dante e molto
Petrarca. Con quest’ultimo anche in dialogo diretto.
Sono
rime di amore e dispetto per “Fiammetta”, la bella napoletana di cui il govane
Boccaccio si fantasticò a lungo innamorato, negli anni dell’“esilio” fiorentino.
Che si amplieranno nel 1344 nella “Elegia di Madonna Fiammetta”, la lunga
lettera-romanzo in nove capitoli in cui la stessa Fiammetta racconterà il suo
amore. La vera Fiammetta, se è la Maria d’Aquino figlia illegittima di Roberto
d’Angiò, l’unica rintracciata dagli studiosi, si era sposata a Napoli, aveva
quattro figli ed era probabilmente già morta, avendo vissuto trent’anni.
Giovanni
Boccaccio, Rime
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