domenica 14 maggio 2017

Heidegger si fa l’autoritratto

Materiali minimi - articoli e poesie giovanili, interventi, elogi, commenti radiofonici, commemorazioni - raccolti dallo stesso Heidegger nel 1975 per il volume XIII delle opere. Un volume poi pubblicato dal figlio Hermann, curiosità non insignificante, per il novantesimo compleanno della madre Elfride, dalla quale ha saputo di non essere figlio di Martin. L’ultimo scritto, altra curiosità, riletto il giorno della morte, invita a meditare se l’autenticità, qui “terra nostra”, sia possibile “nell’epoca della uniforme civilizzazione tecnica”.
C’è di tutto. Anche un appello all’amicizia con la Francia, con l’Occidente. Nel 1937. In un numero di “Alemannland”. Nella raccolta poetica del 1947 che dà il titolo al volume c’è anche il famoso-famigerato: “Chi pensa in grande, deve errare in grande”. Che Hermann fa precisare in nota allo stesso Heidegger, con quest annotazione sul suo esemplare personale della pubblicazione: “(La frase) non è intesa in senso personale, bensì riferita a quell’erramento che domina nell’essenza della verità, ed al quale soggiace ogni pensiero che in qualche modo si dispone a seguire il comando dell’essere”.
Il primo scritto, su Abraham di Santa Clara, è del 1910, Heidegger aveva 21 anni e studiava teologia – un resoconto giornalistico delle celebrazioni per un settimanale di Monaco, “Allgemeine Rundschau”. Heidegger voleva fare il giornalista. Seguono le prime poesie, che sono come le successive: elegie, idilliache. E poi un po’ tutti i suoi motivi: il sentiero di campagna, la vita a Todtnauberg, la campana la mattina di Natale, col dialetto, il focolare, gli usi paesani. E le letture che a strapaese si conformano: molto Hebel, forse un terzo del volume, il “poeta di casa” - di Hebel non si parla, ma si meritò di Heidegger almeno cinque saggi, come Hölderlin, alla cui anamnesi è anzi propedeutico: il radicamento è tema di Heidegger preminente. Hölderlin, il poeta che non “poetava”. Stifter: “Mostrare nel piccolo ciò che è davvero grande, aprendo la visione sull’invisibile”.
Con verità a volte chiare. Nell’autocelebrazione che la “Neue Zürcher Zeitung” gli propose per i settant’anni, nel numero del 27 settembre 1959, partendo da un Nietzsche del 1886, “La confutazione di Dio confuta in realtà soltanto il Dio della morale”. O a chiusura di “Cenni”, il volumetto di poesie che fa stampare nel 1941, in guerra:  “Il pensiero dell’essere è la cura per l’uso del linguaggio”. Molto c’è sulla poesia. Anche sulla scultura: “La scultura sarebbe il farsi-corpo dei luoghi”, pregnante e non isolante.
In questa chiusa è conciso e chiaro, nei toni dell’elegia che lo contagia sempre come poeta - in mezza pagina c’è tutto Heidegger: 
“Il pensiero dell’essere ha superato la fine della «filosofia». Ma l’opposizione ai «filosofi» non lo scalza dall’amicizia per i pensatori.
“Il pensiero dell’essere non assalta mai la verità. Ma ne aiuta l’essenza. Tale aiuto non sortisce alcun successo, ma è aiuto come semplice esser-ci. Il pensiero, in ubbidiente ascolto dell’essere, gli cerca la parola.
“Ma se il linguaggio dell’uomo è nella parola, soltanto allora esso è «a piombo». Quando è a piombo, gli fa cenno il sicuro procedere delle fonti nascoste. Queste sono le prossimità dell’inizio.
“Il pensiero dell’essere è la cura per l’uso del linguaggio”.
Una specie di selfie, in evidenza quasi deformata, da fish-eye: c’è tutto lo heideggerismo. La capziosità. Nel dialogo filosofico, malgrado tutto,“Per indicare il luogo dell’abbandono” col pensiero non-pensiero, il volere non-volere, “l’impossibilità di descrivere la cosa detta” – e quindi di parlare, di pensare? . L’elegismo, quasi sentimentalismo, nei versi e anche in prosa: della tribù, il provincialismo, il dialetto, la solitudine, il silenzio. Il misticismo implicito ma rifiutato, l’“abbandono”, che deriva all’esoterismo: “Pervenire a quell’assenza del pensiero di cui finora non si è fatta esperienza”, “la trascendenza (che) oltrepassa la percezione degli oggetti”. In Attesa, all’Aperto, dell’Aperto. Dagli ossimori affascinato del misterico Trakl, che ritrova fino in Rimbaud – del “sapere ignorando”, del “nominare tacendo”, e “il non parlare” come “un aver già detto”. Ossimori che ripetono la dialettica appena insolentita – “la dialettica è la dittatura dell’ovvio”.
Guardiano del linguaggio, sospettoso, arcigno. Uno degli ultimi testi della raccolta, “Linguaggio”, 1972, indirizzava a Raimon Panikkar, il prete teologo indo-catalano, il 18 marzo 1976 in questi termini: “Il presente testo si rivolge al tempo stesso contro la diffusione in ogni dove della linguistica, che mette l’essenza del linguaggio a disposizione del mondo dominato dalla tecnologia – a disposizione del computer - operando di fatto la distruzione del linguaggio”.
Nell’ultimo o penultimo testo, “La mancanza di nomi sacri”, è tutto se stesso, chiaro e conciso. Sofistico. Il metodo del pensare e le vie del pensiero argomentando diversi: “Questo fatto si lascia dire nominare nel modo più chiaro nella lingua\ greca, sebbene la seguente proposizione non ricorra\ in alcun luogo del pensiero dei Greci:\ La via (non è) mai un metodo”. Salvo, poi, concedere: “La via non conosce nessun metodo, \nessun dimostrare, nessuna mediazione”, scoprendo di sapere di non sapere. Socratico. O un neóteros della sofistica. Perché sapere è “l’esperienza della mancanza”. O: “«Oblio dell’essere» nomina di primo acchito\ una mancanza, una negligenza. In verità\ questa parola è il nome dell’invio del diradare\ dell’essere, in quanto questo può farsi palese solo come\ presenza”.
Un gran lavoro di Carlo Angelino, che molto ha operato con la sua editrice per Heidegger nella giusta misura.
Martin Heidegger, Dall’esperienza del pensiero (1910-1976), il melangolo, pp. 210€ 20

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