sabato 13 maggio 2017

Letture - 303

letterautore

Autore – Flaubert, il letterato-letterato, lo vuole disimpegnato. È la cosa che più colpisce Edmund Wilson rileggendo di Flaubert “L’educazione sentimentale”(nella raccolta “Il cronista letterario”): “«Oggi», scriveva a Louise Colet nel 1853, «arrivo a credere che un pensatore (e che cosa è l’artista se non un triplice pensatore?) non dovrebbe avere né religione né patria né alcuna convinzione sociale. Mi sembra che il dubbio assoluto sia un’indicazione così inequivocabile che darsi la pena di formularlo equivarrebbe quasi ad un’assurdità». E «I cittadini che si scaldano pro o contro l’imperatore o la Repubblica», scriveva a George Sand nel 1869, «sembra non siano di maggiore utilità di quelli che usavano disquisire sulla grazia efficace e la grazia perficiente». Nulla lo esasperava maggiormente — e oggi possiamo simpatizzare con lui — dell’idea che l’anima si salva con la professione delle corrette opinioni politiche”.

Borges – È molto “stradale”, lui che diceva inopportuno dare nomi di personaggi alle vie. Avenidas, calles, plazas pullulano nel nome di Borges, in Argentina e in Spagna.

Conan Doyle – L’inventore dello “scienziato” Sherlock Holmes fu stolidamente spiritista nella seconda metà del sua vita. Credeva alle fate, e le vedeva. Ma aveva un modello: anche Dickens, seppure in modi meno pubblicizzati, lo era. Dilettandosi personalmente di mesmerismo.

Dante Viaggiando per “Il Sole 24 Ore” Carlo Ossola riscopre a Treviri Marx, e in Marx Dante, sempre in italiano: “Segui il tuo corso e lascia dir le genti” (chiusa della prefazione alla prima edizione), e san Pietro che la chiavi del Paradiso (XXIV, 82-85): “Assai bene è trascorsa\ D’esta moneta già la lega e il peso,\ Ma dimmi se tu l’hai nella tua borsa” (“Il Capitale”, I, 1: Merce e denaro). O Da Ponte, “Don Giovanni”, nelle lettere: “È aperto a tutti quanti,\ Viva la libertà”.
Però è vero che Treviri è la “vera Roma”, quella che il classicista vive – più che la Roma capitale d’Italia, che è anche grande città medievale, rinascimentale, ottocentesca. E più da molti secoli centro della cristianità, città vaticana: città comunque viva, non figée  nel passato imperiale.

Goethe – Viene fissato nella seriosità mentre non c’era portato, per formazione e temperamento. Si trascura la gioventù e la prima maturità, licenziose piuttosto e vagabonde. Gli “anni di vagabondaggio” si traducono e si presentano come “anni di pellegrinaggio”, come di un santino. Mentre era uno vorace. E si innamorava in tutti i posti dove andava, non solo a Roma – difficilmente una ragazza passabile gli passava indenne davanti. A 25 anni si mise con la dama di corte Charlotte von Stein, di dieci anni più grande e sposata, salvo mollarla senza un cenno quando decise di partire per l’Italia. E fino all’ultimo visse licenziosamente: fino a quasi sessant’anni ebbe amanti e non mogli. Né migliorò dopo il matrimonio con Christiane Vulpius, la madre dei suoi figli. L’“Elegia Marienbad”, 1823, a 74 anni, che giudicava la sua migliore, gli fu ispirata da una giovane Ulrike von Levetzoff, ventenne, sposata – è vero che Christiane era già morta. Al tempo della rivoluzione americana, da capo della Commissione di guerra del duca di Weimar negoziò attivamente e abilmente la vendita di attivisti politici, ladri, criminali e barboni agli eserciti assiano e inglese, da mandare a combattere contro gli indipendentisti – salvo poi elogiare i Padri Fondatori dell’America e la libertà. Se ne fa un santone saccentone mentre era un curiosone. Impegnato e insieme spregiudicato. Ma è vero che – libertinamente – gli piaceva la forma curiale: la personalità, la fama, i titoli, le riverenze. 

Lista – Anche F.S.Fitzgerald aveva la “vertigine della lista”, come Umberto Eco. È una delle prime cose che confessa nelle note autobiografiche  - autodemolitorie - “Il crollo”. Dopo i dieci anni 1920 dei successi, finiti con il crac a Wall Street e la follia della moglie Zelda, Fitzgerald si isola. Dorme, “a volte per venti ore al giorno”, e compila elenchi. Per non pensare: “Negli intervalli (fra un sonno e l’altro, n.d.c.) mi mettevo d’impegno a non pensare e compilavo elenchi, compilavo elenchi per poi strapparli, elenchi a centinaia, di comandanti di cavalleria, giocatori di football e città, motivetti popolari e lanciatori di baseball, momenti felici, passatempi, case dove avevo abitato e quanti vestiti avessi avuto dopo il congedo militare e quante paia di scarpe… Ed elenchi di donne che mi erano piaciute”. Un indizio forse, quest’ultimo, che semplifica la “vertigine della lista” dello scrittore americano, che fu devoto alla moglie ma voleva potere non esserlo.
Eco ne fa invece il sintomo di una cosa ben più vasta: il dominio del mondo. “Le mie liste” è la seconda parte delle non tradotte “Confessions of a young novelist”, pubblicate a Harvard nel 2011 (ma riprendono in buona parte la “Vertigine delal lista”, il libro illustrato che Eco aveva pubblicato nel 1009). Cominciando dal “catalogo delle navi” dell’“Iliade” e finendo con Calvino e Borges, Eco repertoria una lunga serie di elenchi di cose, più o meno ipotetiche. Che rispondono a un tentativo, dice, di fissare e padroneggiare il mondo. A ben guardare , anche in questa accezione le “vertigine” sarebbe meglio applicabile a Fitzgerald che a Eco. Che non si ubriacava.
Il mondo di Eco è però quello visibile, visivo (il tema delle sue “confessioni” è come uno studioso dei segni arriva a fare il romanziere) – un po’ allora come la raccolta dei francobolli un tempo, quando non c’era internet. Gli elenchi sono secchi, come se la parola non coinvolgesse chi di suo non è già coinvolto. Mentre coinvolgono le illustrazioni che a un certo punto della sua ricerca Eco ha ritenuto di dover allegare alle liste: quadrerie, reliquiari, battaglie, fabbriche, corti e cortigiani, macellerie, scatolette Campbell’s, arte povera, arte narrativa, del Tre-Quattro-Cinquecento. E la libreria naturalmente. Le “liste” illustrate sì, inducono, come dice lui, la vertigine da “elenchi infiniti”.

Proust – Amava il Ritz, che però lo ha tradito. Presto: già negli anni 1920 era una sorta di american bar, per ricchi bohémien americani che amavano sbronzarsi, artisti o con la voglia di diventarlo – parte di Hemingway, “Festa mobile”, e di molti racconti di Fitzgerald. E pochi anni dopo “non era più un american bar”, per Fitzgerald che deluso ci ritorna, nel racconto “Babilonia rivisitata”. E non era nient’altro.  Anche se aveva preso ad abitarlo Coco Chanel. Ma il peggio doveva venire. È stato in guerra sede di una Komandantur di occupazione. E poi oggetto di tanti passaggi di proprietà. Al termine dei quali è finito chiuso, per cinque anni, per essere praticamente ricostruito, mantenendo solo il nome – è stato riaperto un anno fa.
Il penultimo passaggio si proprietà lo raccontava Daniela Pasti su “la Repubblica” vent’anni fa, il 14 settembre 1995: “Al Ritz di Parigi esiste una suite Proust: lui non vi abitò mai, ma spesso cenava in una camera dell’albergo, dove il direttore Elles aveva disposto che gli venisse servito da mangiare anche a tarda notte. Il personale del Ritz, racconta Painter nella sua biografia di Proust, era orgoglioso della fama dello scrittore e leggeva gli articoli che parlavano di lui. Ma quando in questo viaggio abbiamo chiesto di visitare la suite ci è stato risposto di no. Il proprietario dell’albergo è arabo e arabi sono anche la maggior parte dei clienti, per i quali nei corridoi dell’hotel sono allestite vetrine «sontuose e atroci». La suite Proust non si può visitare, ma ci si può dormire per dodici milioni a notte”.
La memoria è traditrice – bisogna manipolarla ben bene.

Vitalità – È il segno dell’artista, la sua forza, secondo il F.S.Fitzgerald del “Crollo”. Ed è un dono: “Uno ce l’ha o non ce l’ha, come la salute o gli occhi castani o l’onore o una voce baritonale”. E non si attacca, non si spartisce, non si insegna.

letterautore@antiit.eu

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