Simone
Weil pianta due piloni di una nuova organizzazione della società in uno dei
suoi ultimi scritti, a Londra nel 1942. Di attenzione all’essere umano come
tale, fuori dalla collettività che lo rappresenti o nella quale si riconosca. Al
di là anche delle istituzioni, fossero le più legali e le più democratiche. Per
un concezione della giustizia che sfida le imposizioni del diritto – o allora per
un diritto alla disobbedienza civile, si sarebbe detto trent’anni dopo (e forse
per la manifestazioni “francescane” del papa regnante, benché confuse). Con una
nota di Giancarlo Gaeta.
Un testo riedito in molteplici edizioni
negli ultimi mesi, almeno due in francese, Gallimard e Rivages, quest’ultima curata da Agamben, è disponibile anche online,
in originale, nell’insieme “Écrits de Londres”, tra i quali è stato recuperato,
uno delle ultime febbrili riflessioni di Simone Weil. Già incluso nei “Moralisti
moderni », l’antologia del 1958 curata da Moravia e Zolla.
“Ciò che è sacro, ben lungi che sia la
persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale.”Tutto ciò che è impersonale
nell’uomo è sacro, e questo solo”. Nella condizione umana come in ogni sua
manifestazione: “Ciò che è sacro nella scienza è la verità. Ciò che è sacro
nell’arte è la bellezza. La verità e la bellezza sono impersonali. Tutto questo
è troppo evidente”. Dell’uomo, “non è né la sua persona né la persona umana in
lui che mi è sacra”, aveva detto: “È lui. Lui tutto intiero. Le braccia, gli occhi,
i pensieri, tutto”.
Tra
diritto e giustizia c’è un abisso. “I Greci non avevano la nozione di diritto.
Non avevano parole per esprimerlo. Si accontentavano del nome della giustizia”.
Ma non solo i greci, i cristiani dovrebbero rifiutare il diritto: “Come la
nozione di diritto è estranea allo spirito greco, è estranea anche all’ispirazione
cristiana, là dove essa è pura, non mescolata di eredità romana, ebraica, o aristotelica.
Non si vede san Francesco d’Assisi che parla di diritto”.
Una
riflessione seminale. Violenta, come è nell’uso della penna in Simone Weil, ma
articolata. Sotto la disputa semantica, di definizioni, in polemica col “personalismo”
di Emmanuel Mounier, che monopolizzava la pubblicistica filosofica, cristiana
ma anche laica. Un’etica del rigore. Dell’accettazione, inclusiva. E della giustizia
sotto la durezza della legge.
Una
riflessione gravida soprattutto nella nuova collisione di popoli e culture che
è l’immigrazione transmediterranea di massa, dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa,
e quella americana, dal Sud al Nord America. Ma non ambigua, seppure irrisolta,
sul governo attraverso la giustizia. “Lodare la Roma antica di averci legato la
nozione di diritto è singolarmente scandaloso. Perché se si vuole esaminare in
essa cos’era questa nozione nel suo nocciolo, si vede che la proprietà era
definita col diritto di uso e d’abuso. Di fatto la più parte delle cose di cui
ogni proprietario aveva il diritto di uso e d’abuso erano degli esseri umani”.
Il
passaggio più delicato riguarda la “nostra” integrazione, quella dell’osservatore.
Della sua “persona” nella sua collettività per quanto concerne gli estranei. “Il
passaggio nell’impersonale non si opera che con un’attenzione di qualità rara e
che non è possibile che nella solitudine. Non soltanto la solitudine di fatto,
ma la solitudine morale. Non si compie mai in colui che si pensa lui stesso come
membro di una collettività, come parte di un «noi»”. Con una forte denuncia
antitribale e antinazionalistica: “L’errore che attribuisce alla collettività
un carattere sacro è l’idolatria; è in ogni tempo, in ogni paese, il crimine
più diffuso”. Un radicalismo che si giustificava nel 1942 contro l’idolatria
nazista, ma non applicabile alla Resistenza, come a ogni difesa. Nell’un caso e
nell’altro, resta imperativo come fuoco di sbarramento contro i muri.
Simone
Weil, La persona e il sacro,
Adelphi, pp. 78 € 7
Free
online (in originale)
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