A ottobre del 1988 Algeri insorge “contro gli orchi del regime”, e subito “i Fratelli Musulmani emergono inesauribili dalla clandestinità”. Le gerarchie e le tradizioni sono ribaltate presto fin nei villaggi più remoti, i barbuti dettano legge “bulimici, pericolosamente espansionisti”, i figli si ribellano contro i padri, le figlie sono oggetto di violenza. Il decano del villaggio muore, gli anziani e l’imam non possono fargli una celebrazione funebre, il giovane sceicco integrista lo impedisce. Un assetto di secoli è stravolto, peggio che nella guerra gloriosa d’indipendenza contro la Francia, 1956-1963. Anche perché la guera civile ha preso più anni, il decennio 1990.
Brevi racconti, di barbe che si fanno crescere, corteggiamenti rivali fra ex amici, di cui uno è diventato poliziotto e l’altro per gelosia e vendetta si fa barbuto, gli umori cattivi dela comunità condensati nel nano malefico, le superstizioni, gli scongiuri, le “influenze malsane”, i mestieri minuti, i silenzi, le riserve mentali, le debolezze prevaricanti di un villaggio poi non tanto remoto, prossimo alla città, Sidi Bel Abbès, e al mare. Come romanzo dell’attacco islamico all’Algeria, paese pluralista, è tutto prevedibile, è nelle cronache ormai da una generazione. E tuttavia il racconto è singolare, “parlante”.
“Yasmina Khadra” sa di che parla: l’integrismo islamico ha vissuto nel suo paese, come parte in lotta, e ha studiato in Medio Oriente, in Iraq, Afghanistan, Palestina, le scene di sue precedenti narrazioni. In Algeria è diverso: una generazione, anche due, sono imbricate nel fratricidio, tra amici, in famiglia, nella comunità. Nella paura prima: nessuno vede, nessuno capisce. Poi l’inselvaggimento: “A poco a poco, al caffè, al mercato, alla moschea il turbamento cede il posto al divertimento”. La gente non reagisce, non condanna nemmeno gli orrori: “Ci si mette a trovare agli attentati spettacolari un abbellimento,agli assassini una temerarettà rocambolesca, alle esecuzioni una legittimità”. Il racconto “mostra” le forze al lavoro sotto il velo dell’integralismo, nel loro modo d’essere naturale, prima e al di sotto della crudeltà: non c’è limite alla barbarie, la storia non è una freccia.
È la rivincita, anche, dei poveri non solo di spirito, e dei reietti. Ma la tela di fondo, come sempre nei racconti algerini di questo scrittore, per esempio la serie del comissagio Llob, è quella della rivoluzione tradita, degli affaristi, gli opportunisti, i corrotti e corruttori di famelicità inesauribile. La rappresentazione ripete il distacco dell’autore, da tempo autoesiliato in Francia, dal suo paese, l’Algeria. Nel quale non trova che avidità e sopraffazioni, per il tradimento originario dela rivoluzione del 1956. Una veduta che sa di pregiudizio, non fosse stato lo scrittore un ufficiale superiore dell’esercito, l’erede del Fronte di Liberazione nazionale del 1956, nella guerra civile degli anni 1990. Il suo racconto dà inoltre del terrorismo istituzionalizzato una veduta diversa: non la religione ne è il motore, ma l’avidità e l’opportunismo. Il giovane imam che infiamma i cuori è sempre nel giusto, non si sente mai comandare un’azione inopportuna, e a un certo punto scompare, le bande dei mozzateste si gonfiano di furbi, sciocchi, falliti. Il peggio della brutta Algeria: “Siamo in democrazia”, il nano cattivo avrà così l’ultima parola, “ognuno deve difendere i suoi interessi”.
La guerra civile algerina è dimenticata, benché recente e cruentissima. E questo è un altro aspetto singolare del racconto. Come se si proiettasse su una scena remota, mentre è solo dell’altro ieri. È quello che non si dice di questo terrorismo, che si è anzi voluto innalzare a religione, e a forza combattente, perfino per la democrazia in Iraq, in Siria, e in Afghanistan. Mentre è solo violento, e perciò infame: “Contadini, istitutori, pastori, guardie notturne bambini sono assassianti con rara bestialità”.
In Algeria ci sono stati almeno duecentomila morti nei dodici anni di guerra civile 1992-2004. Un “episodio” nella dissoluzione del mondo arabo e islamico dopo le indipendenze (dopo la fine delle legge e ordine colonialista) che questo sito segnalava una diecina d’anni fa:
E in particolare, per l’Algeria, al § “Vendetta”: “Nella guerra per l’indipendenza algerina, fra il 1954 e il 1960-62, si sono contati sei-settecentomila morti. I morti francesi sono stati 35 mila: 28.500 militari, 2.800 civili uccisi e 3.150 scomparsi dopo il cessate il fuoco. Degli oltre seicentomila morti algerini, 141 mila risultano combattenti del Fronte di Liberazione, più trentamila civili morti o dispersi per effetto della guerra. Gli altri quattro-cinquecentomila morti sono vittime delle vendette dopo il cessate il fuoco il 19 marzo 1962, e fino alla costituzione del nuovo Stato indipendente a fine anno, in Algeria e altrove, in Marocco, in Tunisia, in Francia: algerini dell’esercito francese, con i loro familiari, concorrenti del Fln, berberi. In città e nelle campagne isolate, dove forse la vendetta fu più feroce.
““Yasmina Khadra”, pseudonimo del colonnello Moulessehoul, il giallista che era negli anni 1990 colonnello dell’esercito algerino, lo spiega in “La parte del morto”: “Appena i soldati francesi ebbero cominciato a evacuare il paese, le violenze sono ricominciate ancora più feroci. Intere famiglie venivano braccate giorno e notte dai sedicenti liberatori. I fellaga erano scatenati, davano alle fiamme le case e i campi degli sconfitti, le esecuzioni sommarie si trasformarono in stragi inaudite”. La notte tra il 12 e il 13 agosto 1962, alla fine del Ramadhan, molti algerini furono mutilati e trascinati per i villaggi prima di essere decapitati. E in alcune zone si ricorda ancora il fenomeno dei disparus, intere famiglie scomparse di notte. Ma senza che nessuno, ancora quarant’anni dopo la fine della guerra, sappia o si chieda come”.
Yasmina Khadra, Gli Agnelli del Signore, Oscar, pp. 210 € 9,50
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