L’America quale è. Quale era venti anni fa, i saggi
sono del dodicennio 1994-2005. Sparsi per varie riviste, “Premiere”, “New York
Observer”, “The Atlantic”, “The Village Voice”, “Rolling Stone”, “Harper’s
Magazine”, “Philadelphia Inquirer”. Saggi lunghi rivisti per la raccolta, anche il doppio della lunghezza
originaria nei priodici commissionari. Raccolti nel 2005, due anni prima del suicidio. La fiera del porno della
celebrata apertura, con la “notte degli Oscar” del settore – un business doppio
della Hollywood istituzionale, 4 miliardi di fatturato annuo, contro 2. La
politica made in Usa, al seguito di John McCain che tenta la candidatura nel
2000: “Forza Simba – Sette giorni in Cammino con un Anticandidato”, un
divertimento molto serio - e molto lungo, un centinaio di pagine in originale. La
candidatura di McCain è il
primo caso, prima di Obama nel 2008, di mobilitazione giovanile. Con modi
peraltro, e modalità veteropolitiche: McCain chiude ogni comizio, ogni
passaggio, ogni stretta di mano, invariabilmente con la stessa frase, studiata
a tavolino, una spontaneità cuore in mano senza un briciolo di spontaneità.
L’accusa ricorrente alla politica è di “torcererità come Clinton”.
Il testo del titolo, a margine del festival - una
sagra - del Maine che ne fa un’economia, commissionato dalla rivista “Gourmet”,
che non deve avere molto apprezzato. L’11 settembre visto da casa, a
Bloomington, Illinois, dove Foster Wallace insegnava inglese all’università di
Stato, con i vicini, religiosi, buoni praticanti, tutti patrioti – il tempo di
capire che era un attentato e non un film e le bandiere erano finite nei
negozi, una reattività all’aggressione in automatico: “La vista da casa della
signora Thomson”. “Host” (“Commentatore”), il predicatore radiofonico, tutto io
e, necessariamente, reazione – o la filosofia del talk-show, un esercizio in
egomania. .
Dieci saggi, brevi e lunghi. Con molta letteratura. La
comicità di Kafka – la funniness. Molto Dostoevskij: “Dostoevskij non è solo grande, è anche divertimento” – anche lui,
dunque, dopo Kafka. La peculiarità “dei personaggi di Dostoevskij è che sono vivi”, e non perché ben congegnagti ma
perché vivono “dentro di noi, per sempre, una volta che li abbiamo incontrati”.
Perché “scrive romanzi su materie realmente importanti… Su identità, valori
morali, morte, volontà, amore sensuale contro lo spirituale, avidità, libertà,
ssessione, ragione, fede, suicidio” – il dubbio lasciando: gli altri di che
scrivono?
Con molto
humour proprio, non arzigogolato. Folgorante è la caratterizzazione, oltre che
degli Oscar porno, dei Magnifici Narcisisti, la triade Updile-Mailer-Philip
Roth, con Bukowsky e un paio di altri nomi non esportati. Tutti presi dal
sesso, dall’organo. Nel disprezzo del resto del mondo, la donna agognata per
prima. Un’analisi moralistica, ma appuntita. Completano la raccolta l’uso
politico della lingua, sulla traccia di Orwell, “Politics and the Englih
Language”. E le false autobiografie, genere dilagante, nel cinema e nello
sport, “Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore”, la tennista.
Un grosso
lavoro di traduzione, di Adelaide Cioni e Matteo Colombo. Foster Wallace usa
molti hapax, ambivalenze, a partire dal titolo del primo saggio, “Il figlio
grosso e rosso”, circonlocuzioni interminabilmente subordinate, certo per più
precisione. E di impaginazione: Foster Wallace mette le note in mezzo al testo,
con “nasi”, riquadri, freccette. Senza preziosità, sembra: è un cronista, di
fatti e letterario, che va avanti agile. Ed è un maesro di scrittura: sa
disporre la materia, sa dire quello che vede o vuole dire. Ma molto costruito.
Col radicalismo – ingenuità –
dell’Autore Americano, che deve sempre fare la scoperta dell’Africa, benché sia
stata scoperta prima di Gesù Cristo, e anzi la Creazione. E la storia fa
accessoria, un materiale. Un altro esempio s’impone a proposito di Dostoevskij,
una delle “interpolazioni”-digressioni: “Ha qualcosa la vita di questo tizio
Gesù Cristo da insegnarmi anche se io non credo, o non posso credere, che fosse
divino?”, etc. - uno che poteva trasformare il legno della croce in una
fioriera, “e se anche ammettiamo che era divino, lui lo sapeva?”, e comunque “che cosa importa? Posso ancora credere in GC
o Maometto o Chi altro anche se non credo che erano parenti di Dio?”, ma,
Joseph Frank lo spiega, “nessun ateo che abbia contestato la natura divina di
Cristo ha negate il fatto che Egli è l’ideale dell’umanità” – Foster Wallace e
Joseph Frank, dunque.
“Host” è un altro centinaio
di noiosissime pagine, caricate di glosse e controglosse. Il saggio centrale, un centinaio di pagine sull’uso
dell’americano, della lingua, è sviluppato come un intrico. Di sigle, per lo
più non spiegate, subordinate, “interpolazioni” (chiama così le digressioni).
Come per rendere il compito impossibile all’editore, al traduttore, al lettore.
Più l’argomentazione si sviluppoa e più si privatizza, personalizza. Sterne non
avrebbe saputo fare meglio, difficile non perdersi. “Lapolitica e l’uso
americano” è titolo ridondante, così l’argomentazione procede, meglio
“L’autorità e l’uso americano”. E l’autorità? Il vocabolario. Forse. La
pappardella è interminabile tra Prescrittivisi e Descrittivisti. O sugli “usi”
sbagliati – per esempio l’avverbio “doppio” (ambiguo), del tipo “chi mangia
fagioli spesso ha mal di stomaco”. O l’uso obbligato, esemplificato sui
pantaloni per il maschio americano.
Ma anche
qui il “saggista” si lascia andare a guizzi, arrivato al “politicamente
corretto”: poche pagine ma persuasive sul perché il PC è politicamente incorretto.
Offensivo, vuoto, insignificante, solo autocelebtrativo della “virtù del
parlante”, che va – aspira? – alla mummificazione.
Senza gli
eccessi, è Orwell: narrativa a metà tra il reale e il distopico – a disagio
nella civiltà, o meglio nella koiné. Da scrittore “unico”, alla Melville.
“Scrittore americano”, come di lui si dice, cioè atipico, eminentemente.
Radicato ma personalizzato, e avveniristico, innovatore, ricercatore.
David
Foster Wallace, Considera l’aragosta, Einaudi, pp. 382 €13
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