Orfanelle,
agnizioni, cavalieri bianchi, anche se con macchia: il repertorio è da grande
fogliettone, solo aggiornato nel linguaggio. E negli ingredienti. Anche il
sentimentalismo resta forte. Amori e avventure quali le vuole il romanzo
d’appendice, calati nell’attualità: figli anonimi, la rete internet, la rete
Nsa (spionaggio americano), wikileaks, la Germania rieccola, e il convitato di
pietra rimosso, il nucleare sotto di noi. Attorno a un’Agenzia della Verità che
butta fuori rifiuti e schifezze.
È
anche - involontario? - il rifiuto del
sesso free. Purity è nome proprio,
oltre che la cosa. Ma di Purity che si offre nessuno vuole sapere, tutti
preferiscono, malgrado tutto, la moglie e la famiglia. La cosa è un brand, di un Andreas Wolf, “lupo”
tedesco dell’Est, diventato apportatore di luce, a capo di una banda di hacker,
tutti hired guns, concorrente di
Assange e wikileaks.
Un
occhio diverso sul mondo quale è. C’è il PTSD, il disordine da stress
post-traumatico. La ragnatela Nsa. Il
nucleare dimenticato. La Bolivia con Evo Morales. E, non detto ma ben rappresentato, il nichilismo di Assange. Un monumento al giornalismo,
quello vero, del controllo accurato dei dati (fatti, fonti), che rianima un po’
il residuo lettore. Toccando tutti i registri – anche fumettistici: due amanti
molto intellettuali, di quelli che dell’amore parlano, parlano molto, che non
si parlano da due mesi, alzano la cornetta del telefono allo stesso momento.
Autoironico: c’è anche l’Autore che non può amare perché il Grande Libro lo
impegna.
Tanti
romanzetti posticci, che non legano. Leggibili – la leggibilità è di scuola –
ma implausibili: una lunghissima conversation
piece. Noioso peraltro nel capitolo più lungo, la storia della coppia madre,
come tutti i litigi coniugali. Si può recuperare come una storiaccia –
involontaria?: di madri divoranti. Delle figlie e anche dei figli.
Jonathan
Franzen, Purity, Einaudi, pp. 642,
ril., € 22
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