Il
romanzo di Maupassant virato all’unidimensionale, la disgrazia. Seriale: le
disgrazie si succedono ineluttabili. Femminista anche – non è vero, la vittima
è sì donna, ed è tradita dal marito e dal figlio, ma non dal padre, mentre è
tradita pure dalla madre (la zia in Maupassant) e dalla sorella di latte, ma
così vuole la promozione e questo aumenta il peso. Violento, all’interno della
storia e sullo spettatore: due ore di piani stretti, mezze figure e primi e
primissimi piani, senza respiro – se c’è la campagna o il mare è in campo medio
e in grigio, secca la terra, schiumante l’acqua. Da film d’autore, certo, a
basso budget, ma soffocante.
Maupassant
realista e visionario è scrittore da cinema, una cinquantina almeno di film
sono stati tratti dai suoi racconti e romanzi. “Una vita”, il primo dei suoi
sei romanzi, ha un solo precedente, Astruc nel 1958, con Maria Schell,
Antonella Lualdi e Christian Marquand, e andava svelto, limitando i lutti al
rapporto vittima-marito, poi lei guardava l’avvenire col figlio. Alla maniera
di Maupassant.
Maupassant
ha solo donne vittime, dacché aveva adottato gli schemi Zola a Meudon, in tutti
i romanzi e i racconti – eccetto quelli salaci: borghesi o prostitute, giovani
o in età, avvedute o sventate. Di suo era però l’esatto opposto del femminista:
era cacciatore, presto sifilitico, che la donna considerava cacciagione come la
volpe, su cui non intristiva. Non avrebbe retto a questa sua “Una vita”. Ma il
problema non è di Maupassant, è dello spettatore.
Stéphane
Brizé, Una vita
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