A fine 1757
Rousseaulice decide di scrivere all’amata Sophie d’Houdetot,
madre e moglie felice, un trattatello sulla felicità, in forma di lettere. Un
progetto del genere da parte di un pessimista radicale – o Rousseau è un
ottimista, radicale? – promette bene. Ma dopo poche schermaglie l’assunto è
dimenticato. La felicità, parte Rousseau col dire, è materia fertile di
filosofia. Ma con un handicap: “Ognuno insegna agli altri l’arte di essere
felici, nessuno l’ha trovata per se stesso”. L’infelicità viene dall’essere
estranei a se stessi. E qui finisce il trattato. Anzi no. Finirà col consiglio
della solitudine. Temperata – altra perfidia? – dale opere di bene. L’asunto è
dimen ticato dopo alcune pagine di ghirigori su amore e virtù, da libertinismo
settecentesco, e l’assicurazione: “Sarò più felice che di avervi posseduta”.
Questa speciale
galanteria non è tutto. L’egotista qui, semmai si potesse, abusa di se stesso.
“Provo in me l’invincibile impulso del genio”, si assicura, subito dopo essersi
complimentato per l’assalto fallito. Si sorpassa, come si dice: non c’è complimento
che si risparmi – a se stesso. L’amata ne è solo afflitta, come falso scopo.
Con una lingua però, malgrado il compiacimento, tagliente. E con due punte memorabili, che costituiranno il
fulcro della “Professione del vicario savoiardo”, al libro IV dell’ “Emilio”,
qui in forma molto espressiva se non controllata.
In quatro righe
sono liquidati Berkeley, d’Holbach, Malebranche, Diderot, Leibiniz. Per il
vizio dei filosofi , nei termini derisori già di Cicerone e Descartes (“Non c’è
massima assurda che qualche filosofo di fama non abbia avanzata”): “L’uno ci
prova che non c’è corpo, l’altro che non ci sono anime, un altro che l’anima
non ha alcun rapporto con il corpo, un altro che l’uomo è una bestia, un altro
che Dio è uno specchio”. Sulla solitudine, anche, la riflessione non è
scontata, anzi ha punte acuminate. Come autodifesa. Come mezzo per raggiungere
il meglio di se stessi, se c’è.
Il commento e le
note d Cyril Morana all’edizioncina francese arricchiscono il trattatello coi
debiti di Rousseau verso Seneca e Descartes, col rapporto critico nei confronti
di Montaigne, e col russovismo dell’etica di Kant.
La felicità? È
all’inizio della seconda lettera, l’inizo della riflessione: “L’oggetto della
vita umana è la felicità. Ma chi di noi sa come giungervi?”. Con un abbozzo
svagato di una sorta di teoria della dissipazione. Un’anticipazione, volendo,
di Bataille. Ma più stoica che cinica, Rousseau si lamenta molto ma non è
temperamento depressivo.
Le lettere non
saranno pubblicate prima del 1888. Sulle brutte copie conservate dallo stesso
Rousseau. Sophie, pure tanto cara, le
aveva dstrittute, quello era un periodo di scandali a sucessione per il futuro
“vicario savoiardo”. Ma non c’è nulla di personale – eccettuato il rifiuto di
Sophie a essetre “posseduta”. Ci vuole ben altro che il rifiuto di un amplesso
per smontare Rousseau.
Jean-Jacques
Rousseau, Lettere morali, Marietti,
pp. 128 € 17
Lettres morales, Mille-et-une-nuits, pp. 77 €
2,50
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