Un racconto dell’inferno, e un altro Čechov, il medico positivista, all’opera per il
benessere dell’umanità. Un viaggio-inferno escogitato in chiave resurrezione,
da una vita incolore e disimpegnata, nella Russia anni 1880.
Un racconto: “L’isola di Sachalin”.mantiene, malgrado
la frantumazione, una sua dignità di racconto. Di un’isola dei morti, di
deportati e ex deportati – sull’esempio dell’Australia che Čechov non cita, ma
senza la fertilità del clima e del suolo. Il cui progetto è dovuto a un
agronomo e filantropo di cui Čechov ha stima: Michail Semënovič Micul’ dice
“uomo di grande forza morale, grande lavoratore nonché ottimista e idealista
appassionato”. O del male effetto del bene, che a ben guardare è il filo rosso
di Čechov.
Una raccolta di articoli. Il volume riproduce una
serie di corrispondenze di Čechov, da “inviato speciale” di “Novoe Vremia”,
Tempi Nuovi, nel corso del 1890, a trent’anni, poi riprese in volume – c’era la
censura sotto gli zar, ma era altra cosa che sotto Stalin, o Breznev. Il giovane
Čechov è un medico, non un giornalista, ma dà qui il meglio dell’uno e dell’altro.
Non manca la “letteratura” in questo lungo reportage, la
divagazione. Benché Sakhalin sia un mondo in cui Puškin e Gogol’ sono “incomprensibili
e inutili”: “L’anima” vi “è invasa da quel sentimento che forse ha già provato
Odisseo mentre navigava per mari sconosciuti”. Ci sono anche immagini di
bellezza: le donne Ainu, con le labbra tinte di blu, le contadine della valle
dell’Arkaj, gli uomini Giljaki, beati e depressi. Ma sono dosi omeopatiche, escrescenze
minate da un fondo sinistro, di violenza, anche istituzionale, e corruzione. Čechov
non è radicale, e anzi lavora protetto dalle autorità, .ma le cose che dice parlano
da sole.
Sakhalin era cinque colonie penali. Un carcere all’aperto,
dove l’impero trasferiva, ai lavori forzati, migliaia di detenuti. Il 21 aprile
1890 Čechov partì in treno. Fu a Sakhalin, impegnatissimo nella ricerca
socio-sanitaria sul campo, da luglio a ottobre. Il ritorno fece via mare, approdando
in Russia l’1 dicembre.
La corrispondenza è una prima e ancora valida
testimonianza dell’estrema varietà di luoghi e popolazioni della Siberia. Ma è soprattutto
un’anamnesi socio-sanitaria insuperata – benché poco narrativa e piuttosto
ripetitiva nella sua interezza - delle condizioni di vita dei detenuti. Il medico Čechov compilò circa diecimila schede
sui suoi colloqui con i detenuti e le loro famiglie, su ogni aspetto della vita
nel bagno penale. La metà, poco meno, dell’intera popolazione carceraria viveva
in situazioni tipo famiglia, per metà legittime per metà di fatto. Ma ciò non
alleviava la durezza della feportazione. Per freddo, o caldo umido, e stenti.
Ciò che resta del monumentale reportage sono gli aspetti che ancora pedurano, non solo nella
remota Sakhalin. Della legge applicata a caso. Della burocrazia ottusa,
malvagia per stupidità. Dell’abiezione senza rimorso. Specialmente
contemporaneo il suo intellettuale: “C’è nella nostra diletta patria una
grandissima povertà di fatti e una gran ricchezza di ragionamenti d’ogni
specie”. Di sé del resto Čechov scriveva, mentre concepiva il viaggio, al suo
editore Suvorin: “Non abbiamo scopi né immediati né lontani, nella nostra
anima c’è il vuoto assoluto. Non abbiamo concezione politica, non crediamo
nella rivoluzione, non abbiamo un Dio, non temiamo i fantasmi e, quanto a
me, non temo neppure la morte né la cecità”.
Anton Čechov, L’isola di Sakhalin, Adelphi, pp. 464 €
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